Albanese, la Stampa, e la tragedia di inseguire i ragazzini che non hanno mai visto un giornale

Il bello di stare tre giorni senza scrivere è che puoi cambiare idea trenta volte su quale sia il taglio giusto con cui commentare i teppisti che, non sapendo dove altro instagrammarsi venerdì, sono andati a ridurre la redazione della Stampa come la cucina di casa loro quando non gliela rassetta mammà.
È forse il momento di scrivere un articolo chiedendosi quand’è che la sinistra è diventata la destra? È l’occasione giusta per redarguire chi ai teppisti dà corda sperando così non gli si rivoltino contro, e invece poi guarda? O è finalmente venuta l’ora di chiedersi cosa dica il cervello a chiunque, in seguito a qualunque avvenimento, vada da chiunque altro a domandargli se prenda le distanze?
Comincerei da Peter Freeman, che è un signore il cui nome avete probabilmente visto per molta parte della vostra vita nei titoli di coda di “Blob”. Quando avevo vent’anni, leggevo Freeman sul Manifesto. Adesso che ne ho centodue, lo leggo su Facebook. Dove, per dire la sua su quel che è accaduto venerdì alla Stampa, ha scritto un resoconto di tre invasioni della redazione del Manifesto.
Sintetizzo: negli anni Novanta vengono i metalmeccanici, sono incazzati, ma normale dialettica; sempre anni Novanta, arrivano gli anarchici, sì sono un po’ aggressivi ma mica squadristi come i fasci; poi alla fine del 2000 un fascista porta una bomba, gli esplode in mano e ci rimette qualche dito (sembra un film dei Coen). Quella volta, dice Freeman, avemmo paura davvero.
Il che ha senso: uno così imbecille da farsi scoppiare la bomba addosso, chissà cosa poteva combinare – ma ovviamente non è quello che Freeman intende. Quello che Freeman intende è: quegli altri erano compagni che sbagliano (uno slogan che chissà perché ci è rimasto impresso più della Lega costola del movimento operaio).
Insomma, se fanno irruzione e vandalizzano una redazione ma lo fanno da sinistra, è nostro dovere non sgridarli troppo. Scorrendo i commenti, c’è Roberto Silvestri che dice che quella volta gli anarchici avevano ragione (sembra un film di Nanni Moretti, ma di quelli degli anni Settanta, quelli senza le canzoni). Nessuno, mi pare, nota il rimosso più evidente di quel post: quei tre episodi si svolgono tutti e tre in anni in cui i giornali esistono.
Vandalizzare la redazione d’un giornale oggi è come vandalizzare una cabina telefonica. Se hai ambizioni da rivoluzionario, vai a vandalizzare la sede di Meta (dove però plausibilmente si possono permettere un servizio di sicurezza che ti rimanda da mammà in lacrime). Da quel che si capisce dalle immagini, gli annoiati del venerdì hanno vent’anni o giù di lì: un giornale non l’hanno mai visto.
Non che gli adulti siano messi meglio. Nel filmato che tanto ha indignato per le ragioni sbagliate – quello in cui giornalisti pigri sabato fanno a Francesca Albanese la pigra domanda «si sente di condannare», e altri giornalisti pigri trascrivono che lei avrebbe risposto «ma che sia di monito», e in nessuna registrazione si sente questa parola, ma d’altra parte D’Alema dice di non aver mai detto che la Lega era costola della sinistra, e a un certo punto vale il «print the legend» – in quel filmato lì c’è un dettaglio magnifico.
La Albanese dice che non ha trovato notizia di non so che mentre «oggi sfogliavo le pagine dei principali giornali», e nessuno di quelli che di mestiere fanno i raccoglidichiarazioni le dice ma sfogliavi cosa, cialtrona, che i giornali stamattina non sono usciti. Timidamente suggeriscono «era sciopero, molti giornali non hanno lavorato», lei tentenna «però com’è che altri giornali», e loro pronti a soccorrerla: «Magari l’on line si aggiorna». Un paese magnifico, col mito dello schienadrittismo e la fisiologica incapacità di dire «ma cosa cazzo sta dicendo» a chiunque: un’ampia gamma di intervistati mitomani in ogni ruolo, di albeparietti d’ogni settore, tutti – famosi, ignoti, cantanti, ministri, cuochi, capi del mondo – accomunati dal non ricevere mai un «ma di che ciancia» in risposta alle loro fantasie sgrammaticate. (A un certo punto del video senza monito c’è anche un timido «però, forse, dottoressa», a metà tra “Non ci resta che piangere” e un qualunque parcheggiatore).
È vero che i ventenni parlano male dei giornali senza averli mai sfogliati, come sento improvvisamente dire, in tv e sui giornali stessi, da giornaliste la cui linea politica fino alla settimana scorsa era i giovani ci salveranno, i giovani hanno capito il mondo, i giovani sono migliori di noi. Nel mandare loro un abbraccio solidale – non è mai un momento facile, quando la vita ti costringe ad ammettere che i tuoi figli sono scemi – le invito a cogliere l’occasione per smettere di, rispetto a temi e toni dei giornali, porsi il problema dei ragazzini. E cominciare a porsi quello di quella minoranza di adulti che s’ostina a leggere. Io non so neanche quanti abbonamenti pago, e ogni volta che sfoglio qualcosa mi viene lo sconforto.
È lo sconforto che viene a osservare prodotti mossi dal panico, che non è buon consigliere, perché è così che va nei periodi di recessione. I settori commerciali in crisi – i giornali, il cinema: vale per tutti – hanno una dinamica simile a quella degli amori disamati (in analfabetese: amori tossici). Vivono nel terrore di alienarsi un affetto che non esiste.
Se scriviamo questo, i propal non ci comprano più (non vi hanno mai comprato). Se produciamo questo, i giovani non verranno al cinema (avevano già smesso di venirci nella pancia della mamma). «Da parte vostra, che siete ascoltati così tanto dai gggiovani», dice un qualche cronista tragicamente romano alla Albanese, che in confronto a lui parla in dizione. Tutti a bramare i giovani, neanche vendessero videogiochi.
È tutt’un inseguire – promettendo di amarlo di più e meglio, di fare di tutto per accontentarlo, d’impegnarsi per essere all’altezza delle sue aspettative – un pubblico che non sa più come dirti «Sparisci, sgorbio» (è una citazione di quando si andava al cinema: che tempi, che nostalgia).
Quando poi quel pubblico è di sinistra, c’è l’aggravante dell’ortodossia mancata. Per quanto tenti di compiacerli e di adeguarti alle loro richieste, non basterà mai: non c’è «genocidio», «persona con utero», «cinquant’anni di malgoverno democristiano» o altra parola d’ordine che basterà ad accontentarli. Comunque, ci sarà un dettaglio che ti rende uno che non aderisce totalmente allo zelo del momento, e il pubblico di sinistra, che vuole uno specchio e non delle idee, ti punirà per questo.
Ti punirà più facilmente se stai dalla sua parte ma con un paio di sbavature, che se stai tenacemente dalla parte contraria; tra i grandi giornali italiani, La Stampa è senza dubbio quello che dà più spazio alle ragioni delle tifoserie mediorientali, e ciononostante non basta: non basta mai, come sa chiunque abbia avuto un amore non ricambiato. La sinistra è diventata assai più bigotta e intollerante e vendicativa della destra, il che è un bel casino, perché la destra è veramente troppo cafona, e noi normali non sappiamo più dove metterci.
Uno dei miei aneddoti preferiti è quella volta, nel 2021, in cui un autore del programma di Floris mi chiamò per vagliare se valesse la pena invitarmi in trasmissione, facendomi domande per lui dirimenti onde decidere da che parte del dibattito collocarmi. Furono venti meravigliosi minuti di «Ma tu sei pro o contro Pio e Amedeo?» «Ma sei scemo? Ma che domanda è?».
Mi viene in mente adesso perché penso con tenerezza a chi è arrivato fin qui chiedendosi «ma questo è un articolo pro o contro i teppisti? Pro o contro La Stampa? Pro o contro la guerra? Pro o contro le scritte sui muri? Pro o contro i giovani?».
È andata così, che a un certo punto abbiamo deciso che non si potevano dare per scontate le basi – siamo tutti per la fine delle guerre, la non vandalizzazione della proprietà privata, il guanciale nella carbonara – e passare a occuparsi dei piani sopra le fondamenta. Non si poteva tacitamente decidere che eravamo tutti d’accordo che le mogli non andassero ammazzate: bisognava ribadirlo ogni volta che si discuteva di riforme del codice penale.
Lo so, amici lettori, che i giornali non vi aiutano, andando ogni volta che succede qualche guaio a raccogliere dichiarazioni di posizionamento. Lei è musulmano: prende le distanze dall’11 settembre? Lei è ebreo: prende le distanze dai bombardamenti di Gaza? Lei è uomo: prende le distanze dal tizio che ha dato cento coltellate all’ex? Lei ha il senso dell’umorismo: prende le distanze dal film di Pio e Amedeo? E da quello di Angelo Duro le aveva prese?
Lo so che vi sembra che il problema sia se Francesca Albanese abbia o no usato la parola «monito», ma io vi assicuro che non è tra i primi cento problemi. Tra i primi cento problemi ci siete voi che non avete niente di intelligente da chiedere, niente di più sveglio di «condanna i vandali?» «prende le distanze dagli attentati?» «spera nella pace?»: cosa diamine pensate possano rispondere? Poi la Albanese vi dice «imparate come si fa la libera stampa», e voi, invece di dirle «guarda che se impariamo poi non ti regge il microfono più nessuno», tornate in redazione e scrivete «monito».
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