La politica schiava dell’algoritmo, e l’impossibilità di distinguere il vero dal falso

Dicembre 2, 2025 - 21:30
 0
La politica schiava dell’algoritmo, e l’impossibilità di distinguere il vero dal falso

Viviamo ancora in democrazie compiute o siamo entrati nell’era delle democrazie e, quindi, delle responsabilità «simulate»? Quanto i social e gli algoritmi che li governano hanno favorito questo processo, contribuendo a formare «realtà su misura» nelle quali gruppi sociali marginalizzati si possono identificare e poi ritrovarsi sotto il cappello comune (come è avvenuto per la coalizione Make America Great Again) del rifiuto dei tradizionali mezzi di costruzione della sfera pubblica, cioè delle istituzioni? E soprattutto, questo processo può essere fermato?

Charlie Warzel su The Atlantic cura il podcast Galaxy Brain in cui si occupa di media e tecnologia e ne ha parlato con Eliot Higgins, il fondatore di Bellingcat, la piattaforma di giornalismo investigativo partecipato che per prima ha utilizzato l’Osint (Open Source Intelligence) per smascherare fake news e manipolazione dell’opinione pubblica. Higgins negli anni ha contribuito a dimostrare l’uso delle armi chimiche da parte del regime di Assad, a individuare i responsabili dell’abbattimento del volo della Malaysia Airlines in Ucraina, a rivelare le identità degli agenti russi che avvelenarono Aleksej Navalny, da ultimo a individuare il luogo in cui è stato ucciso il leader di Hamas Yahya Sinwar, e adesso ha elaborato un modello per valutare lo stato di salute dell’informazione, che è anche oggetto di un report firmato in coppia con Natalie Martin.

Le democrazie funzionano, sostiene Higgins, solo quando è possibile verificare la verità, deliberare su ciò che conta grazie al pluralismo e al confronto, chiedere spigazione al potere delle sue azioni (accountability) e tutti questi tre elementi stanno vacillando. Sempre più spesso si sviluppano sistemi falsamente democratici, dove le funzioni di verifica, deliberazione e responsabilità sono simulate.

Higgins parla di «democrazie disordinate», dove il processo democratico si avvia a essere poco più di un rituale: «Si può ancora votare, per esempio. Ma il sistema è così corrotto e sbilanciato a favore degli autocrati che non conta davvero farlo. Accade in Turchia, per esempio. Lo si vede in Ungheria. Ed è lì che credo si stia dirigendo l’America». Insomma, la democrazia non viene abbattuta ma svuotata. 

Determinante sarebbe stata l’enorme diffusione dei movimenti counterpublics, quei gruppi sociali che si formano attorno a un’ingiustizia percepita e riescono a creare un discorso pubblico alternativo. Inizialmente, il movimento per i diritti civili, il movimento femminista o Occupy Wall Street, capaci di influenzare la democrazia, persino permetterle di evolversi, ma formulando interpretazioni contrapposte alla cultura dominante e con lo sviluppo di proprie reti mediatiche. Fino all’avvento dei social, dei nuovi spazi online, dove non conta più trasferire la verità, ma la ricerca della merce più preziosa per l’algoritmo: l’attenzione, la visibilità.

«L’intera infrastruttura mediatica, in un certo senso, si sta spostando verso questo sistema basato sull’attenzione». A ciò si aggiunge la capacità di Internet di filtrare le opinioni più estreme e contemporaneamente rafforzarle: ogni materiale mostrato include un sottoinsieme e se ti va di cliccarci sopra, ti fornirà contenuti ancora più estremi, indirizzando verso comunità che sostengono e si alimentano di quelle stesse opinioni. Micromondi impermeabili all’esterno, sette digitali dove il dissenso è sinonimo di tradimento, le dinamiche solo identitarie.

Vittime designate il confronto e il ragionamento, con una prima conseguenza: la funzione di verifica finisce per essere delegata a ciascuno. È quella che lo stesso Higgins e Martin nel loro paper chiamano epistemic collapse: l’erosione della capacità di distinguere il vero dal falso. «Queste persone – ragiona ancora Higgins – non si sentono riconosciute negli spazi del mondo reale. Quando vanno online, invece, diventano degli eroi e in qualche modo definiscono se stessi, non solo in termini di gruppo di appartenenza, ma anche rispetto alle persone al di fuori del gruppo. Non sono solo “molte altre persone”. Sono nemici o idioti». Ma qual è la posta in gioco e dove si può arrivare?

Per il fondatore di Bellingcat quanto è accaduto nell’ultimo anno negli Stati Uniti è un monito. «Considero il movimento Maga come una coalizione di counterpublic disordinati. Per esempio, se osservi il counterpublic della salute alternativa – quello a cui appartiene RFK Jr. e che lui incarna – vedi che esistono gruppi molto diversi tra loro. C’è la comunità anti-Nato e quella che nega l’uso di armi chimiche, rappresentata da Tulsi Gabbard. C’è poi quella legata alla teoria del Pizzagate, a cui fa riferimento Kash Patel. Non formano un gruppo unico, con idee condivise, ma rappresentano sottoculture differenti all’interno dello stesso ecosistema. Sono solo allineati sull’idea che Trump darà loro ciò che vogliono, che condividono la sfiducia nelle istituzioni e intendono cambiarle. Un problema enorme, un circolo vizioso in cui queste persone cercano problemi che non esistono, ma di cui sono davvero convinte».

Una fase di disgregazione e di scivolamento verso l’autoritarismo che è appena  iniziata e alla quale Higgins vede rimedio solo se si prende atto dal basso che le istituzioni non dominano più il processo di verifica, deliberazione e responsabilità del potere su cui si basa la democrazia. Ci sono molti modi per farlo: rafforzare il giornalismo indipendente, sostenere i media locali, promuovere nelle scuole e nelle università il pensiero critico e corsi di investigazione open source.

L'articolo La politica schiava dell’algoritmo, e l’impossibilità di distinguere il vero dal falso proviene da Linkiesta.it.

Qual è la tua reazione?

Mi piace Mi piace 0
Antipatico Antipatico 0
Lo amo Lo amo 0
Comico Comico 0
Furioso Furioso 0
Triste Triste 0
Wow Wow 0
Redazione Redazione Eventi e News