La posa storta del monello vale più dei nostri cicisbei a favore di pubblico

È ovvio che quando parlo di me non parlo di me, parlo del mondo, nel quale mondo – mi sembra strano ma è così – non trovo argomenti. Sì, ci sono, ci sarebbero, ma che argomenti sono? Antipatici.
Argomenti che scanso, mi danno fastidio, argomenti che frignano, piagnucolano, non trovo argomenti monelli, spavaldi.
Ricordo monelli (non c’entrano i tempi, i tempi non c’entrano niente, nemmeno credo che i tempi siano mai esistiti; potrei infliggerli con la scioltezza di chi sa che i tempi non sono mai esistiti, e per questo può inventarli come gli pare), ricordo monelli per un particolare: i loro berretti mosci.
Il segno del vero monello è quanto è affezionato al proprio berretto, più è affezionato più è monello. Il monellaccio è affezionatissimo, stringe la propria berretta con due mani, il gesto equivale a quello di chi prega, ma chi prega non stringe alcuna berretta, stringe solo le mani, segno di imbarazzante affettazione (il monellaccio, se gli passasse vicino, gli darebbe una scoppolata sulla testa). Non ci sono più monelli, ci sono gli antipatici.
Il monello stringeva tra due mani il berretto arrotolato a forma di melanzana, lo stringeva quando era seduto, i gomiti puntati sulle cosce, le mani tra le ginocchia divaricate, un po’ piegato in avanti, il monello spettinato, che nobiltà. Ero io. I tempi non c’entrano niente, infatti sono ancora io quello che qualche volta si siede ancora un volta così.
Ho rivelato un segreto: voi del mondo (se ci siete), mettetevi in posa, ogni tanto, nella posa migliore della vostra vita (non cominciamo a fare dello spirito malizioso, quindi vile; per posa migliore intendo la posa del tutto individuale, del tutto e solo vostra, del tutto personale, la posa a sé; in sé, forse?; in sé e per sé? Anche), poi mi saprete dire.
Sfugge, eh? Sfugge quale sia quella posa. Ma poi no, poi no. Ecco, piano piano, cercate, sfogliatevi, cercate bene tra le vostre cianfrusaglie esistenziali, tra un po’ ve la sussurrerete all’orecchio, quella figura. È la figura di partenza (non dico altro). Al meglio di noi, con noi non comunichiamo a parole, comunichiamo a figure, conteniamo una incredibile quantità di illustrazioni fuori testo (e anche fuori contesto, finalmente, direi).
Le parole – è arrivato quel momento – stanno diventando antipatiche, anche le parole (sì, organizzate in frasi, certo; non da sole, qualcuna sì ma non tutte), niente di strano, dopo gli argomenti e le persone tocca alle parole.
Quello che è strano è che viviamo in tempi leziosi (sì lo so che a prima vista non sembrerebbe), leziosi e purtroppo senza ciprie e senza nei posticci (che almeno attenuano l’antipatia con il ridicolo e con il grottesco, ecco perché ‘purtroppo’).
È strano ma, si tratti di invasioni, si tratti di uova di giornata appena rotte nel paniere, ecco, di qualsiasi infamità si tratti, le questioni sono discusse e prese in esame da cicisbei (li ha rovinati il video) vezzosi a favor di popolo ossia di pubblico, affettati, quindi assai nefasti per le buone cause sostenute, ma sostenute in maniera così smancerosa da farle pencolare da ogni parte, inclinare nel verso del ridicolo, crollare, sfasciarsi. Come pretendi di toccare e reggere il tema delicato, addirittura caldo, scottante perfino, se non hai preso qualche lezione di facchinaggio, di carico e scarico portuale, fosse pure di parole ammassate in balle anche enormi? Non crediamo forse più alle nostre più credibili menzogne, sfacciate e a muso duro, convincenti? Crediamo possibile l’interpretazione manierata dei fatti, convenevole, adeguata, ricercata addirittura?
È possibile, anche se strano, che questi siano i tempi del grazioso?
Tutta questa tiritera per una parola: monello. Questa parola d’epoca. Mi è scappata e non so a che titolo. Non è più di questi tempi. Il monello non è il grazioso, di viso sì ma non di modi, è un tipo da strada e non da video. E lei, lei come monella? Mi viene in mente Stuparich: “se quella monella viene in classe nostra, ci rovina tutti” (Un anno di scuola, sì, il solito eterno anno di scuola).
Qui mancano poche righe. Il monello sta col berretto arrotolato tra le mani, le mani tra le ginocchia, aspetta di sapere a che titolo l’ho messo in mezzo alle altre parole, cercando poi di uscirmene dal rotto del berretto, che adesso il monello stringe in una mano sola perché col palmo dell’altra mano batte sul ginocchio e dice «andiamo, va’», infatti si alza in piedi e se ne va.
Dove va? A far danno nel senso buono, buono per sé, a mettersi in qualcuno dei suoi vari panni, a sfiorare l’illecito per vedere se ci trova qualcosa di lecito, di giusto. E qua che c’è venuto a fare? Diciamo il titolo. Monello è il titolo.
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