Langosteria apre un nuovo locale, di successo dal giorno uno

Quando si parla di futuro della ristorazione, Langosteria è ormai un caso di studio. Non solo perché il gruppo di Enrico Buonocore ha superato i 60 milioni di fatturato annuo, con ristoranti sempre pieni da Milano a Parigi, pur restando fuori dal firmamento delle stelle Michelin. Ma perché incarna nella pratica molte delle idee che sono la ricetta perfetta per il locale di successo: il ristorante come impresa prima che come palcoscenico, la centralità dell’ospite, la tecnica al servizio del piacere, non dell’ego. E in occasione della nuova apertura a due passi letterali dalla via più mitica di Milano, Montenapoleone, proviamo a capire quali sono gli ingredienti di questo piatto-impresa che è diventato a buon diritto il più amato e il più invidiato dai ristoratori, che lo guardano come un mito ma non riescono a replicarne la sostanza.
Pensare il ristorante come impresa
Langosteria nasce nel 2007 in via Savona, zona Tortona, da un imprenditore che dichiara fin da subito di voler costruire un “locale perfetto”, non un laboratorio di avanguardia. Oggi il brand è un piccolo gruppo internazionale con più insegne a Milano (Langosteria, Bistrot, Café, Cucina, Montenapoleone) e indirizzi a Paraggi, St. Moritz e Parigi, con nuove aperture annunciate a Londra e Porto Cervo. Non è solo crescita muscolare: è la dimostrazione che un ristorante può diventare impresa mantenendo una visione chiara, replicabile e sostenibile, proprio come chiediamo quando parliamo di modelli di business sani e responsabili nella ristorazione.
Elevare il pesce senza farlo diventare un feticcio
Il cuore di Langosteria è il mare. La Guida Michelin lo definisce “uno degli indirizzi di riferimento per gli amanti del pesce”, con una cucina perlopiù classica e una grande scelta di crudi. Il sito del gruppo insiste sulla qualità assoluta della materia prima, proveniente dai migliori mari del mondo, e su una cucina che non maschera mai con la tecnica l’eventuale mancanza di qualità. Non basta il prodotto eccellente, serve la capacità di renderlo comprensibile, desiderabile, quotidiano anche in un contesto di alta ristorazione, senza snaturarlo per dar voce all’ego di chi lo cucina, ma rendendolo se possibile ancor più goloso per chi lo mangia.
Scegliere i luoghi giusti, non i più appariscenti
Le aperture di Langosteria non sono casuali. La prima via Savona ha intercettato una Milano creativa e internazionale; il Bistrot in via privata Bobbio e il Café in Galleria del Corso hanno ampliato il raggio sulla città mantenendo lo stesso immaginario. Poi sono arrivati Paraggi, con i piedi letteralmente nell’acqua, St. Moritz in versione montagna di lusso, e il settimo piano di Cheval Blanc a Parigi, in pieno impero LVMH. Non è solo posizionamento geografico, è coerenza di contesto: luoghi in cui un certo modo di vivere il pesce – elegante, ricco, celebrativo – trova il suo pubblico naturale. Con l’ultima apertura, un palazzo in corso Matteotti, proprio sull’angolo di Montenapoleone, si conferma l’abilità nel trovare i luoghi più coerenti per il tipo di proposta: sono aperti da una settimana e i 110 coperti sono già ben presidiati dal classico target Langosteria, che è corso a provare il nuovo nato, ma anche dai tanti stranieri che qui vengono per fare acquisti e trovano – a ogni ora – un pasto-coccola e un luogo esteticamente accogliente. Si arriva lasciando la frenesia di Milano alle spalle, si entra in un modo arancio intenso, con le luci perfette, i divani comodi e le sedie piene di cuscini, le tapparelline di legno e quel gusto raffinato ma mai concettuale e ci si trova catapultati nel luogo ideale dove lasciarsi andare, trascorrendo ore felici e momenti appaganti. Non servono spiegazioni, filosofie di cucina, grandi discorsi: basta scegliere o farsi guidare. Quando si esce, soprattutto in questo periodo dell’anno, il trauma è fortissimo. Dentro il paese dei balocchi, fuori una Milano grigia, indaffarata e piovosa. L’unico desiderio possibile è tornarci quanto prima, portafoglio permettendo.
Non fare avanguardia, ma contemporaneità
Langosteria non fa cucina di rottura, e non pretende di riscrivere il vocabolario del gusto. Il menu è rassicurante: grandi crudi, crostacei, linguine all’astice “da manuale”, piatti opulenti che tengono il pesce al centro della scena. È quella che nel dibattito su Gastronomika chiamiamo “contemporaneità adulta”: niente fuochi d’artificio, niente storytelling esasperato, ma la capacità di leggere il proprio tempo e tradurlo in piatti che parlano chiaro, senza chiedere al commensale di decodificare tecnicismi o citazioni.
Ignorare le stelle e parlare al pubblico giusto
Il dato che colpisce di più è la forza di Langosteria “senza stella Michelin”. La guida la segnala e la consiglia, ma non la premia con il macaron. Eppure le liste d’attesa sono lunghe, gli scontrini alti e il pubblico fedele. La scelta implicita è chiara: rivolgersi a una clientela che cerca un lusso inclusivo, fatto di accoglienza, calore, riconoscibilità, più che di codici iniziatici da alta cucina. Non cucinare per la critica e tornare a cucinare per le persone qui è stato sempre il mantra. Il locale sempre pieno è la dimostrazione pratica che con il format giusto si può fare ristorazione di tono e con scontrini alti anche senza la menzione della guida.
Un format riconoscibile, una tecnica nascosta
Ovunque si entri – Milano, Parigi, Paraggi – si riconosce subito lo “stile Langosteria”: luci calde, salette intime, banconi scenografici, servizio affiatato. È la riproducibilità del benessere, che fanno del gruppo uno dei modelli più felici di business della ristorazione italiana. Dietro a questa apparente semplicità c’è una tecnica enorme, ma tenuta apposta dietro le quinte, come dovrebbe essere in ogni ristorante che mette al centro l’esperienza dell’ospite e non il virtuosismo. Stessa cosa succede nei piatti: anche qui si fa ricerca, anche qui si fermenta, anche qui si studia: ma non si sente mai la necessità di spiegare questi virtuosismi, o di raccontarli all’ospite con lunghi monologhi del cameriere di turno. Semplicemente, si lasciano in cucina, e si portano nel piatto, che grazie alla ricerca sarà sempre più buono.
Piatti che fanno felici, basi che non si perdono
Le recensioni dei clienti raccontano quasi sempre la stessa cosa: si esce soddisfatti, senza la sensazione di aver affrontato un esame o un esercizio di stile. Porzioni generose, sapori netti, cotture precise, salse che coccolano più che sorprendere. Sono piatti che non chiedono di “pensare” ma di ricordare, di tornare, di portare qualcuno di caro per condividere quell’esperienza. E allo stesso tempo non tradiscono mai le basi: la cucina è classica, i fondi sono fatti come si deve, il servizio è calibrato, la cantina è studiata.
Le novità di questa ultima apertura
Rimanere uguali a sé stessi ma modificare leggermente il format a seconda di dove si è, è un altro dei tratti distintivi di questo brand. Che per Montenapoleone ha scelto di aggiungere dei pezzi al sistema, che probabilmente serviranno da test per future realtà. Ally’s Bar, il primo cocktail bar del gruppo, al piano superiore rispetto al ristorante, con vista su Milano e con cocktail pre e dopo cena, e un ristorante mediterraneo, Pepe, che promette di essere un nuovo riferimento nella geografia gastronomica di Langosteria. E visto il periodo, è anche l’occasione di lanciare un sontuosissimo panettone, il primo del gruppo, fatto con i canditi di Romanengo e coccolato dal nuovo executive pastry chef del brand, Daniele Bonzi.
In un momento in cui molti ristoranti oscillano tra l’ansia da like e la fatica economica, Langosteria dimostra che si può crescere rimanendo fedeli a un’idea semplice e radicale: far star bene le persone, con buon pesce, in luoghi belli, dentro un progetto imprenditoriale solido. È forse la forma più concreta di avanguardia che abbiamo oggi. È facile, con questi prezzi? No, altrimenti avremmo molte più Langosterie piene e molti meno stellati con buchi clamorosi nei bilanci e sale mezze vuote sostenute solo da aziende e consulenze dello chef di turno.
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