Le pensioni del 2026 avranno aumenti minimi e tasse che si mangiano tutto

Dicembre 2, 2025 - 21:30
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Le pensioni del 2026 avranno aumenti minimi e tasse che si mangiano tutto

Le pensioni cresceranno ancora, ma di pochissimo. Il decreto appena pubblicato in Gazzetta Ufficiale conferma per il 2026 un aumento dell’1,4 per cento, l’adeguamento automatico al costo della vita che ogni anno aggiorna le pensioni all’inflazione. Un meccanismo pensato per difendere il potere d’acquisto, ma che questa volta – come mostrano le simulazioni dello Spi-Cgil – si tradurrà in incrementi spesso impercettibili e in molti casi erosi dal fisco, fino a generare veri e propri paradossi.

Secondo le simulazioni, gli aumenti saranno infatti di pochi euro. La pensione minima passerà da 616,67 a 619,79 euro: appena 3,12 euro in più. Una pensione netta da 632 euro nel 2025 arriverà a 641 nel 2026, nove euro in più. Una pensione da ottocento euro netti crescerà anch’essa di nove euro, mentre una da mille euro avrà un incremento di undici euro al mese. Perfino un assegno da millecinquecento euro lordi, dopo il passaggio da Irpef e addizionali, porterà a casa soltanto diciassette euro.

Per i sindacati il problema è doppio: da un lato aumenti considerati “assolutamente insufficienti” a compensare il potere d’acquisto perso nel biennio 2022-2023, dall’altro un fisco che erode una parte consistente della rivalutazione. La perequazione, infatti, non è piena per tutti: l’adeguamento al cento per cento vale solo fino a quattro volte il minimo, poi scende al novanta per cento e al settantacinque per cento. E soprattutto l’Irpef inizia a pesare non appena si superano gli ottomilacinquecento euro annui, la soglia della no tax area ferma da anni.

È qui che emerge il paradosso ricostruito dal Corriere della Sera: chi ha maturato meno contributi può arrivare a percepire un netto più alto di chi ha lavorato di più. Un pensionato con 384 euro di pensione maturata raggiunge 749 euro netti grazie alle integrazioni e all’esenzione fiscale. Chi ne ha maturati 692, superando di poco la soglia della tassazione, scende invece a 710 euro. E un assegno da 807 euro lordi si ferma a 745 euro netti, appena sopra una prestazione assistenziale.

Il risultato è una distorsione che i tecnici definiscono “asimmetria redistributiva”: più contributi versati non sempre si traducono in un assegno più alto. E allo stesso tempo la rivalutazione lorda tra il 2022 e il 2026, pari al 16,46 per cento, si riduce al 12-13 per cento quando si guarda al netto effettivamente percepito. Una parte dell’aumento viene infatti assorbita dall’incremento dell’aliquota media, che cresce anno dopo anno.

Secondo Cgil e Spi, così la perequazione perde la sua funzione originaria: invece di recuperare il potere d’acquisto, rischia di trasformarsi in un meccanismo che compensa più le esigenze del fisco che quelle dei pensionati. Per questo il sindacato chiede una riforma complessiva del sistema, a partire dal rafforzamento della quattordicesima e dall’ampliamento della no tax area, oltre a una rivalutazione piena almeno fino a tre volte il minimo.

Finché perequazione, tassazione e prestazioni assistenziali non verranno riallineate, avvertono gli esperti, gli aumenti continueranno a essere minimi e spesso simbolici. E il sistema rischierà di mandare un messaggio profondamente sbagliato: a volte, chi ha lavorato di più finisce per prendere di meno.

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Redazione Redazione Eventi e News