L’esito della Cop30 riflette l’inerzia dei governi sul clima e un mondo incapace di condividere orizzonti comuni

Novembre 29, 2025 - 23:30
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L’esito della Cop30 riflette l’inerzia dei governi sul clima e un mondo incapace di condividere orizzonti comuni

Dieci anni dopo Parigi, Belém avrebbe dovuto tracciare la strada che trasforma gli impegni in azioni. Non ci è riuscita. La Cop 30 sul clima non ha inaugurato una nuova stagione dei negoziati invocata dalla comunità scientifica, imposta dall’evidenza climatica e dettata dal “libro delle regole” di un Accordo di Parigi ormai completo.

Una Cop che si è scontrata con i consueti interessi di breve periodo, spesso capaci di sovrastare il valore democratico di un vertice in cui la società civile è tornata con forza sulla scena, dopo la trilogia Egitto–Emirati Arabi–Azerbaigian, Paesi uniti da due elementi: grandi quantità di combustibili fossili e scarsa qualità della democrazia.

Il vuoto più evidente lasciato da summit di Belém lo conosciamo bene, resta lo stesso da trent’anni a questa parte: l’assenza dei combustibili fossili. Né nel testo della Global Mutirão né in quelli dei diversi programmi di lavoro (mitigazione, adattamento, giusta transizione, ecc.) si trova infatti un riferimento esplicito alla causa principale della crisi climatica. La soglia di 1,5°C continua a essere presente nei documenti ufficiali, ma senza gli strumenti necessari per rispettarla resta poco più di un principio astratto, destinato a evaporare di fronte a una realtà in cui crescono le emissioni climalteranti.

Nella Mutirão decision, partiamo da qui, è presente solo un richiamo generico ad accelerare gli impegni assunti con il “transitioning away” di due anni fa a Dubai – prima e unica volta di un riferimento alle fonti fossili in una Cop -, attraverso la creazione di un nuovo “Meccanismo d’azione di Belém” che dovrebbe servire a coordinare e promuovere la transizione (giusta) a livello globale.

Nonostante un lavoro diplomatico intenso, la presidenza brasiliana non è riuscita a superare il veto dei Petrostati, guidati dall’Arabia Saudita, rinunciando così a inserire nell’accordo la propria proposta di una “roadmap” per un’uscita “equa, giusta e ordinata” dai combustibili fossili. E questo, nonostante il sostegno arrivato da una Dichiarazione promossa dalla Colombia e sottoscritta da oltre 80 Paesi, compresi tutti quelli dell’Unione europea con la sola eccezione di Polonia e Italia. Per salvare parte del consenso, la presidenza brasiliana ha così scelto un percorso alternativo: lavorerà insieme alla Colombia per costruire una roadmap volontaria e aperta a tutti i Paesi disponibili, con il lancio previsto durante un summit ad hoc il prossimo 28 e 29 aprile a Santa Marta (organizzato da Colombia e Olanda).

Se questa mancanza di ambizione segna il limite politico sul terreno dei combustibili fossili, lo stallo appare evidente anche sul fronte delle foreste: la Cop non è riuscita a includere alcuno step concreto per invertire la deforestazione entro il 2030. Una scelta che suona come una beffa nel vertice ospitato alle porte d’ingresso dell’Amazzonia, la più grande foresta pluviale del mondo.

Sul fronte finanziario, sempre più ago della bilancia dei negoziati, resta inadeguato l’impegno dei Paesi sviluppati sia in generale e sia sulle attività di adattamento da svolgere nelle nazioni più povere e vulnerabili. Nel testo finale sopravvive una promessa un po’ troppo generica, che punta a triplicare i fondi per l’adattamento entro il 2035 senza però indicare tempi e modi, tantomeno la base da cui partire. L’unico aspetto precisato è che i fondi per l’adattamento rientrano all’interno del Nuovo obiettivo quantitativo di finanza climatica stabilito alla Cop 29 (300 miliardi di dollari all’anno da raggiungere entro il 2035 per mitigazione e adattamento).

Si tratta di un vuoto che pesa, in particolare per i Paesi più vulnerabili che accusano quelli sviluppati di non voler affrontare la crisi climatica globale con sufficiente credibilità. Anche sulla definizione degli indicatori sul Global goal of adaptation persistono tensioni: sono stati approvati 59 indicatori che, però, non sono collegati a obblighi finanziari o a qualche tipo di responsabilità.

Per quanto riguarda la risposta collettiva ai nuovi impegni di riduzione delle emissioni, gli NDCs al 2035, sono state lanciate due iniziative: il Global implementation accelerator e la Belém mission to 1.5. La prima è cooperativa, su base volontaria, e deve rilanciare l’azione sulla mitigazione, la seconda deve portare ad aumentare l’ambizione sugli NDCs. Durante la Cop 30 il numero di Parti che hanno presentato gli NDCs è salito a 120. Va però ricordato che gli impegni attuali non sono in linea con il limite di 1,5°C: bisognerebbe tagliare le emissioni del 60% al 2035 rispetto al 2019.

Per quanto riguarda il Global stocktake (Gst), l’aspetto più rilevante riguarda le modalità con cui verrà realizzato il secondo inventario delle azioni compiute dagli Stati, dopo il primo di due anni fa. Dopo diverse discussioni, il Gst2 compie un salto “qualitativo”: il testo riconosce finalmente il ruolo centrale dell’Ipcc come fonte di “best available science”, pur affiancandolo alla necessità di includere altri contributi suggeriti dai Paesi in via di sviluppo. Nel nuovo mandato entra con maggiore chiarezza il tema del Loss and damage (Perdite e danni), spingendo così il prossimo Global stocktake a tener conto anche delle conseguenze (negative) della crisi climatica.

In parallelo, qualche passo avanti emerge sul fronte dell’uguaglianza di genere grazie al nuovo “Belém gender action plan 2026-2034” che riconosce, seppur timidamente, l’impatto differenziato della crisi climatica su donne e bambine. Restano tuttavia assenti riferimenti espliciti ai diritti umani e alla violenza di genere. Più solido appare invece il capitolo sulla giusta transizione. Qui il linguaggio dedicato al tema si rafforza e include riferimenti ai diritti umani: dalla partecipazione delle comunità al lavoro dignitoso, da un ambiente pulito, sano e sostenibile, alla salute, allo sviluppo e alla parità di genere. In aggiunta, il ruolo dei Popoli indigeni, in prima linea nella difesa degli ecosistemi, trova finalmente una valorizzazione. È in questo quadro che si inserisce la creazione di un Meccanismo di giusta transizione, pensato per ampliare la cooperazione internazionale, offrire assistenza tecnica e favorire lo scambio di conoscenze, in modo da non lasciare indietro lavoratori, territori e comunità. L’accordo di Belém consegna così un paradosso: un passo avanti sulla giustizia climatica e un passo indietro sull’uscita dai combustibili fossili, proprio mentre l’urgenza di colmare il divario tra NDCs ed emissioni reali impone scelte drastiche.

A Belém serviva coraggio politico per rilanciare un’azione climatica all’altezza delle sfide, ma quel coraggio è mancato. Nemmeno l’Europa ha mostrato la visione necessaria per coinvolgere la Cina in una “Coalizione degli ambiziosi”, l’unico asse – vista anche l’assenza e la posizione degli Stati Uniti - in grado di costruire un ponte tra Paesi industrializzati, emergenti e in via di sviluppo. Eppure, il multilateralismo resta la componente da salvare. Se un summit non produce i risultati sperati, la responsabilità non è dello strumento - la Conferenza - ma di come i governi scelgono di utilizzarlo. La scarsa ambizione riflette un mondo frammentato, incapace di condividere orizzonti comuni. E la distanza tra parole, promesse e azioni diventa ancora più evidente guardando al settore dei combustibili fossili: dall’Accordo di Parigi a oggi sono stati approvati 2300 nuovi progetti estrattivi, concessi dagli stessi governi che siedono ai tavoli negoziali, spesso a favore di multinazionali a partecipazione statale. Secondo lo studio di Urgewald, il 96% delle aziende petrolifere e del gas continua oggi a sviluppare nuove risorse; lo studio di Carbon bombsricorda inoltre che quattro delle cinque compagnie più attive nei progetti fossili a livello globale sono europee: TotalEnergies, BP, Shell, l’italiana Eni, più la cinese Cnooc.

È in questo contesto, fatto di contraddizioni e delicati equilibri, che il ruolo dell’Italia può essere determinante. A Belém, il nostro Paese si è opposto all’inserimento di una roadmap sui combustibili fossili, e non ha firmato due dichiarazioni parallele al negoziato: quella per garantire la trasparenza dell’informazione in ambito climatico, e quella – già di per se vaga – sulla riduzione delle fuoriuscite di metano. Insieme a Brasile e Giappone, l’Italia ha invece spinto per l’utilizzo su larga scala dei biocarburanti, una scelta ben lontana dall‘esser definita sostenibile.

Per cambiare passo, però, le strade da imboccare sono chiare. Il Rapporto ASviS 2025 ricorda che l’Italia deve impegnarsi per rilanciare sul piano globale la proposta di triplicare la capacità di energia rinnovabile entro il 2030 e raggiungere il 100% di rinnovabili nel settore elettrico al 2035. Sul piano interno occorre rivedere con urgenza il Piano nazionale integrato energia e clima (Pniec), innalzandone l’ambizione; sciogliere i nodi amministrativi che rallentano i nuovi impianti rinnovabili e la realizzazione delle Cer (comunità energetiche rinnovabili); approvare una Legge nazionale sul clima, colmando un vuoto che ci rende l’ultimo grande Paese europeo senza una cornice normativa dedicata. Servono inoltre una data certa per il “phase-out” dal carbone entro il 2030, un’uscita complessiva dalle fonti fossili entro il 2035 e un Piano sociale per il clima che accompagni la transizione senza lasciare indietro nessuno.

È da solide fondamenta che si dà concretezza all’azione climatica. Ed è così, dimostrando coerenza tra scelte interne e posizioni nei negoziati, che si possono cambiare davvero le sorti. Persino quelle dei tavoli internazionali.

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