Per anni capitale dell'Alta Moda italiana, Roma ha vissuto un periodo in sordina. Ora sfilate, mostre ed eventi la rimettono al centro

Una volta si chiamavano MAS, acronimo di Magazzini allo Statuto: luogo mitico della romanità popolare, in piazza Vittorio Emanuele. Una sorta di bizzarro department store low-cost, contenuto in un palazzo gentilizio. Vi si trovavano oggetti strambi e buffi, abiti da sposa, tappeti, tute, servizi da tè e aspirapolveri con la stessa facilità con cui si trova parcheggio in un giorno di festa. Oggi quello spazio è diventato la nuova sede dell’Accademia di Costume & Moda, e a guardarlo così elegante, rarefatto, potente nella sua architettura originaria finalmente ritrovata e sottoposta a un detox estetico, per volere di Lupo Lanzara e Furio Francini, rispettivamente Presidente e Amministratore delegato dell’Accademia – sembra quasi un simbolo involontario ma perfetto di una città che vuol recuperare con eleganza il suo posto nella mappa della creatività internazionale.

Qui, tra muri che odorano di vernice fresca e progetti che sanno di rivoluzione, 17 giovani alchimisti della stoffa hanno appena presentato le loro capsule collection al Graduate Show Talents 2025. Una prova, certo, ma anche una dichiarazione d’intenti, una visione collettiva del futuro della moda interpretato da giovani talenti sotto la guida dei docenti Santo Costanzo e Luigi Mulas Debois, con il supporto di ben 37 aziende del made in Italy, in un dialogo concreto tra formazione e industria, tra sogno e struttura.
Dove si accumulavano merci, ora si accumulano idee
Dove un tempo si accumulavano merci, ora si accumulano idee. E tra queste, spiccano quelle dei vincitori: per la moda è Daniele Pio Rosati, che con la sua collezione Signorine amaramé ha preso un testo cinquecentesco – Et io ne viddi uno in Napoli – e lo ha trasformato in un viaggio nella virilità cangiante contemporanea. Non è solo moda, è antropologia cucita addosso: drappeggi che ricordano le Madonne barocche, ma anche la fierezza di un’identità che sfida le convenzioni.

Dal Fashion Show dell’Accademia Costume&Moda, tenutasi lo scorso 12 aprile a Roma (Courtesy of Accademia Costume&Moda)
Per la categoria accessori, al primo posto c’è Angelica Marchetti, che con Interlinked compone un dialogo tra Africa e futuro, creando oggetti-ponte tra mondi lontani. Borse che sembrano amuleti, cinture che raccontano migrazioni, stivali che sembrano totem, con una modernità che non dimentica la mano dell’artigiano.
Queste non sono solo tesi di laurea in forma di abiti o borse. Sono testimonianze. Sono prove concrete di una pedagogia della moda che non si limita al disegno tecnico, ma lavora sulla narrazione, sulla responsabilità, sul posizionamento critico nel mondo. E che tutto questo accada a Roma, non è un dettaglio. Perché è bene ricordare che è stata la capitale dell’alta moda italiana. È qui che, nel secondo dopoguerra, nasceva la moda nazionale: nelle stanze di Palazzo Pitti ancora si discuteva, ma era in via Condotti che si vestiva la “Hollywood sul Tevere”. Valentino, Roberto Capucci, le sorelle Fontana, Gattinoni: erano nomi che avevano Roma come indirizzo, e il mondo come destinazione. Poi la città è rimasta ferma come una nobildonna bellissima ma stanca.

Look della collezione “Signorine amaramé” realizzata dal vincitore della categoria moda Daniele Pio Rosati (Courtesy of Accademia Costume&Moda)
Ma oggi, qualcosa si muove. E lo fa con grazia, senza clamore, senza bisogno di provocazioni. Dolce&Gabbana, ad esempio, hanno scelto Roma per una mostra monumentale al Palazzo delle Esposizioni, Dal cuore alle mani – arricchita e resa ancor più magnifica rispetto all’esordio milanese – che verrà inaugurata il 13 maggio, giorno in cui il duo di stilisti ha scelto proprio Roma per l’evento mondiale del loro défilé Alta Sartoria, che coinvolgerà in una settimana di appuntamenti importantissimi clienti e stampa internazionale. Che racconta non solo la loro poetica, ma l’intero immaginario meridionale reinterpretato come visione.
A novembre, il MAXXI ospiterà Sacra Moda, a cura dell’imprenditore Stefano Dominella, che racconta il rapporto tra moda e religione, tra rito e rappresentazione, tra potere e bellezza: non una suggestione estetica, ma una riflessione profonda sul ruolo che gli abiti hanno avuto nella costruzione del sacro (del resto, tra la cappa di un cardinale e quella di Yves Saint Laurent, il passo è più breve di quanto sembri e, in entrambi i casi, serve una postura perfetta).
E ancora: l’Accademia PM23, fondata da Giancarlo Giammetti e Valentino Garavani, che con discrezione e qualità formerà una nuova generazione di creativi nel palazzo accanto a quella che fu la loro sede più importante, a piazza Mignanelli, sulla scalinata di Trinità dei Monti. Negozi di ricerca aprono in centro, boutique internazionali tornano a investire. Roma non è più (solo) una cartolina vintage. È un laboratorio.
Next Stop: ricucire una nuova energia creativa
È il ritorno della città al centro della conversazione estetica occidentale? Forse. È sicuramente un segno che la città ha smesso di considerarsi solo un fondale e ha deciso di tornare protagonista. E lo fa alla sua maniera: con un misto di classicismo e caos, bravura e teatro.
Certo, i problemi restano: manca un vero sistema, manca una settimana della moda competitiva. Ma l’energia c’è. Ed è un’energia gentile, affettuosa, consapevole. Del resto, si terrà a maggio in una location ancora tenuta segreta la sfilata Dior disegnata dalla romanissima direttrice creativa Maria Grazia Chiuri, mentre Fendi si prepara a festeggiare i suoi cento anni con un programma di eventi ancora da scoprire, mentre è visitabile su prenotazione il quartier generale della griffe dentro il Palazzo della Civiltà Italiana, nel Quadrato della Concordia all’Eur, costruito fra il 1938 e il 1953.

Dalla sfilata Autunno Inverno 2025-26 di Fendi, un vero e proprio omaggio all’heritage del brand in occasione del suo centesimo anniversario (foto Lunchmetrics)
Ma è nello shopping esclusivo e autoctono che si trovano i templi di un lusso civettuolo e sofisticato: in via Panisperna, nel cuore bohémien di Monti, Le gallinelle accoglie i fedeli dello stile con la sua miscela irriverente di passato e presente. Wilma Silvestri, alchimista di stoffe e visionaria del vintage, trasforma abiti d’epoca e tessuti etnici in creazioni per anime ribelli. Il suo laboratorio è un crogiuolo di ispirazioni, dove un kimono può diventare un abito da sera e un ricamo antico trasformarsi in un dettaglio streetwear.
Poco lontano, nel Rione Regola, si cela Maison Halaby di Gilbert Halaby, designer libanese trapiantato nella capitale: crea sciarpe che profumano di spezie, tailleur che ricordano i mosaici bizantini, ogni pezzo un incontro tra mondi lontani. A due passi, al numero 35 di via di Monserrato, Chez Dédé sorprende con la sua devozione alle curiosità snob e raffinate: ogni oggetto esposto invita a un rituale di ammirazione, quasi ci si aspetti di dover indossare guanti bianchi per avvicinarsi alle creazioni. E per chi cerca il lusso più radicale, via Urbana 137 ospita Moll Flanders, tempio discreto dello stile contemporaneo. Tra queste pareti si trovano pezzi rari di Martin Margiela, Yohji Yamamoto e altre firme cult. È il posto giusto per chi vuole vestire di storia della moda, ma senza il peso della convenzionalità.
Mentre il mondo corre dietro alle grandi griffe, la vera eleganza si trova ancora qui, dove la moda non è solo business, ma artigianato dell’anima. Perché in fondo, come dice qualcuno tra queste vie, «il lusso vero è poter sbagliare strada e trovare comunque la bellezza».
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