Terre rare, passa anche per il Giappone il piano dell’Ue per liberarsi dalla dipendenza cinese

L’Unione europea ha un problema serio derivante dalla sua dipendenza dalla Cina per le terre rare. È un problema di vecchia data, ma che si sta facendo via via più pressante sostanzialmente per due ragioni. La prima: questi elementi, presenti in concentrazioni variabili in un paio di centinaia di minerali presenti nella crosta terrestre, sono fondamentali per le transizioni digitale e verde dell’Ue. La seconda: dopo una serie di minacce incrociate di dazi e stop ell’export tra Washington e Pechino, Stati Uniti e Cina hanno siglato un accordo che soddisfa le due sponde del Pacifico, ma che relega ai margini del campo di gioco l’Europa.
Non a caso nei giorni scorsi la presidente della Bce Christine Lagarde ha detto che «l’Europa è diventata più vulnerabile, anche a causa della nostra dipendenza dai paesi terzi per la nostra sicurezza e l'approvvigionamento di materie prime critiche», non a caso la scorsa settimana il Parlamento europeo ha dedicato diverse sedute in plenaria per discutere la questione, non a caso i vertici comunitari stanno ragionando su come implementare e accelerare il piano “ReSourcEu” per la sicurezza nell’approvvigionamento di materie prime critiche (annunciato nelle scorse settimane dalla presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen) e non a caso il vicepresidente esecutivo della Commissione europea con delega all’Industria e al mercato unico, Stéphane Séjourné, intervenendo a Strasburgo, ha lanciato quello che è un vero e proprio allarme, con toni anche molto duri nei confronti di Pechino fino a pronunciare la parola «racket» in riferimento alle strategie di export per le terre rare: «Le licenze di esportazione vengono concesse con il contagocce e le consegne subiscono ritardi. Di conseguenza in Europa settori industriali strategici come l’automotive o l’energia sono minacciati da interruzioni dell’approvvigionamento. Altri, come la difesa, ne sono addirittura esclusi. Queste licenze sono apparentemente concesse a prezzi accessibili, ma in realtà al prezzo di informazioni che rientrano nel segreto industriale, una cosa che spesso assomiglia a una forma di racket».
Come ha però sottolineato lo stesso Séjourné, la responsabilità di questa situazione non è tutta in capo a Pechino. È l’Unione europea che deve muoversi. «La situazione è insostenibile, è più che mai giunto il momento per l’Europa di rafforzare il proprio gioco, di raddoppiare gli sforzi per spezzare la nostra dipendenza dalla Cina per le terre rare, come per gli altri minerali critici». Il pacchetto ReSourceEu, che sarà presentato mercoledì, stando a quanto anticipato fin qui anche dal commissario europeo si svilupperà in tre direzioni: accelerare l’integrazione e il coordinamento all’interno del mercato interno per acquistare insieme, accelerare la produzione e il riciclaggio in Europa, accelerare la diversificazione dei nostri approvvigionamenti a livello internazionale.
La sfida non è semplice, considerando che questi materiali sono fondamentali per settori che vanno dall’automotive alla difesa, dagli smartphone alle turbine eoliche, dalle attrezzature mediche ai magneti alle batterie. E l’Europa si sta muovendo ora dopo aver accumulato un grave ritardo. Né il calo dell’import registrato la scorsa primavera relativamente al 2024 non basta come segnale rassicurante: nonostante la riduzione, i Paesi europei hanno importato 12.900 tonnellate di terre rare, con la Cina che è stata il principale partner commerciale, rappresentando il 46,3% del peso totale delle importazioni.
La strategia di Bruxelles contenuta nel Critical Raw Materials Act prevede che entro il 2030 l’Unione estragga il 10%, trasformai il 40% e ricicli il 25% di ciò che consuma ogni anno. Diversi Stati membri e aziende stanno facendo pressione per accelerare tempi e pratiche necessarie per autorizzare nuove esplorazioni e perforazioni: come la Rare Earths Norway, che ha annunciato la scoperta del più grande deposito di terre rare conosciuto d’Europa. Ma non bisogna dimenticare i risultati che si potrebbero ottenere con lo strumento del riciclo, per il recupero di materiali primi critici e terre rare, che in Italia può portare a cifre e percentuali di tutto rispetto.
Altre soluzioni su cui l’Europa potrebbe e dovrebbe riflettere arrivano dal Giappone, Paese che ha sperimentato in prima persona gli effetti della dipendenza da Pechino: nel 2010 la Cina ha sospeso le esportazioni di terre rare a causa di una disputa territoriale con Tokyo, colpendo così l’industria automobilistica giapponese. La lezione è servita: il Giappone ha promesso di non lasciarsi mai più in una posizione di così netta vulnerabilità e i suoi produttori hanno iniziato a immagazzinare terre rare sufficienti a soddisfare il proprio fabbisogno per due anni, investendo anche in fornitori australiani, vietnamiti e kazaki. Una strategia che è stata studiata dai vertici comunitari anche con numerose missioni in quel paese.
Come riporta Euractiv, al centro dello sforzo compiuto da Tokyo per liberarsi dalla dipendenza cinese c’è la Jogmec (Japan organisation for metals and energy security), un’agenzia indipendente che lo stesso commissario europeo all’Industria Séjourné ha visitato a settembre e che il commissario al Commercio Maroš Šefčovič ha visitato a maggio: i suoi circa 600 dipendenti hanno contribuito a ridurre la dipendenza da Pechino per le terre rare dal 90% al 60-70%. Come hanno fatto? Investendo denaro, impiegando le competenze giuste e ampliando l’offerta. L’agenzia, viene spiegato, «finanzia la lavorazione interna, sostiene le aziende giapponesi all’estero e contribuisce ad aprire nuove fonti di materie prime in tutto il mondo». Come riporta sempre il ben informato Euractiv quest’estate Jogmec ha investito in un progetto di esplorazione in Australia della fluorite, un minerale fondamentale per la produzione di refrigeranti e semiconduttori, a settembre ha incontrato partner africani come la Repubblica Democratica del Congo, la Nigeria e la Namibia, dove ha diversi progetti nel settore delle terre rare, e sono state avviate partnership in Perù, Nuova Zelanda, Malesia, Emirati Arabi Uniti, Brasile e Norvegia. «Tokyo si sta ora preparando ad aumentare il tetto massimo del sostegno governativo a tali progetti dal 50% al 75%. Il ministero dell’Economia, del commercio e dell’industria offre anche sussidi e agevolazioni fiscali per incoraggiare le aziende a diversificare i loro approvvigionamenti. Il rubinetto dei finanziamenti è aperto anche alle aziende straniere, a condizione che rafforzino la base industriale giapponese».
Sono tutte azioni e strategie che in Giappone fanno apparire come un ricordo lontano e non più replicabile la crisi del 2010. E che l’Europa non avrebbe difficoltà a riproporre. Così come sono o anche riviste e corrette in salsa comunitaria.
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