Cosa si rischia se clienti o fornitori sono sanzionati o inseriti in blacklist?

Maggio 15, 2025 - 17:30
 0
Cosa si rischia se clienti o fornitori sono sanzionati o inseriti in blacklist?

Negli ultimi tre anni il panorama delle sanzioni internazionali è cambiato con una rapidità che ha messo sotto pressione intere filiere produttive: basti pensare ai provvedimenti collegati ai conflitti in Ucraina e Medio Oriente o alle restrizioni su tecnologia dual‑use verso la Cina – ovverosia i prodotti o software che servono a scopi civili ma possono essere impiegati anche per applicazioni militari o di sicurezza. Un’azienda che conclude un contratto oggi potrebbe scoprire domani che il partner è finito in blacklist.

Il rischio non è teorico: un container fermo in dogana perché la banca blocca il pagamento, un ordine di componenti annullato per “esposizione a soggetti sanzionati”, conti correnti congelati per violazione delle norme antiriciclaggio. Questi episodi si traducono in perdite economiche dirette, ritardi nella produzione e, spesso, forte esposizione mediatica.

Le principali liste da monitorare sono quattro: OFAC (Stati Uniti), Consolidated List dell’Unione Europea, sanzioni ONU e HM Treasury del Regno Unito. A queste si aggiungono blacklist nazionali specifiche e, in molti settori, banche dati anticorruzione o antiterrorismo gestite da istituzioni multilaterali.

Oltre alle entità sanzionate ci sono le PEP, le Persone Politicamente Esposte, e le cosiddette criminal list: individui o imprese al centro di indagini penali non ancora oggetto di provvedimenti restrittivi ma ritenuti a rischio. Trascurarle significa esporsi a future contestazioni di negligenza.

Le best practice prevedono due controlli distinti. Il primo è lo screening iniziale (KYC, Know Your Customer), da eseguire prima di firmare qualunque contratto. Il secondo è il monitoraggio continuo: aggiornare i profili dei partner ogni volta che le liste ufficiali cambiano, perché l’aggiunta di un nome può rendere improvvisamente non conforme un rapporto d’affari.

Dal punto di vista operativo, un processo Anti-Money Laundering (AML)/KYC efficace parte dall’esatta identificazione dell’azienda e dei suoi beneficiari effettivi. Si passa poi al name‑matching, una ricerca che usa algoritmi di disambiguazione per distinguere omonimie e ridurre i falsi positivi, un aspetto cruciale quando si lavora con elenchi di decine di migliaia di voci.

Per assegnare la priorità agli alert, molte imprese si affidano a un punteggio di rischio che combina fattori diversi: presenza in liste di sanzioni, esposizione mediatica negativa, settore merceologico, giurisdizione di residenza, storia societaria. Un partner con rating alto richiede verifica manuale e approvazione a livello dirigenziale.

Gli errori tipici sono tre. Primo: considerare lo screening una formalità “una tantum” e non un processo ciclico. Secondo: usare database non ufficiali o non aggiornati, spesso in formato Excel, senza tracciabilità delle revisioni. Terzo: ignorare la struttura di controllo reale, fermandosi al primo livello di partecipazioni senza risalire ai veri titolari o ai trust.

Le autorità di vigilanza hanno mostrato poca tolleranza per queste carenze: tra Europa e Stati Uniti il totale delle multe AML nel 2023 ha superato i dieci miliardi di dollari. Gli istituti finanziari non sono più gli unici nel mirino; anche aziende manifatturiere e società di e‑commerce hanno subìto sanzioni per controlli insufficienti.

Nei settori export‑driven, una buona pratica è l’integrazione diretta dello screening all’interno degli Enterprise Resource Planning (ERP), ovvero i sistemi informatici integrati che collegano i processi aziendali, o dei sistemi di supply‑chain management. Ogni ordine di acquisto viene “congelato” se il fornitore o il paese di destinazione supera determinate soglie di rischio: un blocco che evita l’invio di merci già pagate verso destinazioni sensibili.

Anche le PMI, che spesso non dispongono di reparti compliance dedicati, possono ridurre i costi automatizzando la verifica attraverso piattaforme SaaS collegate via API. L’importante è conservare un log completo delle verifiche: in caso di ispezione della Guardia di Finanza o di audit bancario, la prova documentale è ciò che differenzia una sanzione da un’archiviazione.

Dopo l’implementazione dei controlli rimane il tema della formazione interna. Agenti commerciali e buyer devono sapere riconoscere segnali d’allarme: un cambio improvviso di beneficiario, pagamenti frazionati, società di comodo in giurisdizioni offshore. Nessun software può sostituire l’intuito di chi tratta quotidianamente con fornitori e clienti.

Su questi aspetti mi capita spesso di intervenire come consulente esterno. Alla domanda su quale sia la vera differenza tra un sistema di compliance che funziona e uno che fallisce, rispondo che non è tanto la tecnologia in sé, quanto la sua integrazione in un processo chiaro, con responsabilità definite e aggiornamenti certi.

In Telejnform abbiamo sviluppato un data‑hub che incrocia più di quaranta liste sanzionatorie, aggiorna gli alert in tempo reale e attribuisce un punteggio unificato. Il sistema non sostituisce l’analisi umana, ma riduce drasticamente i falsi positivi e fornisce una base documentale che resiste a qualsiasi audit.

Restare conformi alle normative internazionali non è solo una questione di evitare multe: è un vantaggio competitivo. Un’azienda in grado di dimostrare screening puntuali e trasparenti è più appetibile per investitori, istituti di credito e grandi clienti globali. In un contesto normativo destinato a farsi ancora più complesso, la differenza si farà tra chi si organizza ora e chi si troverà, domani, con i container fermi in porto e poche spiegazioni da dare.

L'articolo Cosa si rischia se clienti o fornitori sono sanzionati o inseriti in blacklist? proviene da IlNewyorkese.

Qual è la tua reazione?

Mi piace Mi piace 0
Antipatico Antipatico 0
Lo amo Lo amo 0
Comico Comico 0
Furioso Furioso 0
Triste Triste 0
Wow Wow 0
Redazione Redazione Eventi e News