Il dramma di Kafi, in cella perché ha provato a sopravvivere

Kafi Asi è detenuto al G6, sottoposto a “sorveglianza a vista”. Una condizione di isolamento pressoché assoluto in una sezione di dolore popolata da 11 persone che per ragioni diverse necessitano di controllo continuo, perché pericolose per gli altri e incapaci di una serena convivenza o perché pericolose per sé, come Kafi Asi.
Lo incontriamo durante una visita con Nessuno Tocchi Caino e la Camera penale di Tivoli. Il suo dolore attraversa il silenzio, le sbarre, il fetore che viene da una cella che sta in fondo al corridoio e che disegna su tutto una condizione indecente di disperazione e di abbandono.
Kafi è un ragazzo con i lineamenti gentili, gli occhi grandi. Mentre parla trattiene a fatica le lacrime e non smette di ringraziare per l’attenzione ricevuta, per le parole di conforto. Viene dalla Libia e ha un passato di fuga e di sofferenza. Non ha nulla né un posto dove andare. Racconta di avere rubato per fame e per bisogno. La sua pena finirà a settembre ma ripete all’infinito che non ce la fa, che non resiste. Il suo corpo lo grida. Ha un taglio sulla gola e profonde ferite lungo le braccia. Alcune sembrano infette, sono gonfie e cicatrizzate male. Chiede aiuto e lo fa in modo struggente. Nella cella accanto c’è Antonia, dice, “una transessuale che digiuna, una mia amica”. Ha paura anche per lei. Proviamo a parlarle ma “il blindo” è chiuso, dorme. Quel posto è un inferno di desolazione senza spazi liberi, senza aria. Dalle celle vestite di niente e presidiate da telecamere anche in bagno si può uscire per un’ora al giorno per accedere ad un rettangolo di spazio nel cemento sovrastato da griglie, sporco. E la chiamano aria…
Kafi ha avuto la scabbia ed è stato in cella di isolamento durante la malattia. Sono frequenti i casi di scabbia in carcere, al punto che un cartello affisso alle pareti di sezione invita a evitare i contatti, gli abbracci, le strette di mano. Poi è stato “lasciato lì anche dopo la guarigione perché si agitava troppo”. Lo racconta Gianni Alemanno nel “Diario di cella n. 13” grazie al quale parla di Rebibbia a chi vuole sapere cosa accade, come si vive in un carcere. Luftim, un altro ristretto, gli ha salvato la vita l’ultima volta che ha tentato di togliersela. Lo ha trovato “appeso alle sbarre della finestra della cella con il corpo grondante di sangue”, racconta Alemanno. Alle sue grida è accorso Fabio Falbo, “lo scrivano di Rebibbia” che con Gianni nutre il diario di vita che attraversa le mura fatiscenti dell’istituto, ha allertato gli agenti. Sono stati i detenuti a liberare il collo di Kafi dalla stretta della corda a cui si è appeso, a raccogliere il corpo straziato da terra, a caricarsi in spalla una barella, a portarlo in infermeria e poi al G6 dove c’era il medico di guardia. Durante la notte Kafi ci riprova. Ha nascosto due lamette in bocca e si taglia sulle braccia, sul torace.
E ora è al G6, da solo, a vivere la sua tragedia che è la nostra. Quella di un giovane uomo chiuso in una desolazione profondissima che non ha riparo, che non ha salvezza. Una storia come tante di miseria e di abbandono, di mancanza di mezzi e di assistenza, di deserto relazionale e umano. Che cosa possono fare gli agenti per aiutarlo? Sono davvero pochi, stremati da turni massacranti, prestati ad attività che esulano dalle loro competenze, gravati da responsabilità troppo opprimenti. Come possono supplire, senza alcuna formazione mirata, alla mancanza di presidi medici adeguati, di assistenza psichiatrica, di accudimento delle vulnerabilità? Come possono gestire un carico così devastante di umanità dolente accatastata in luoghi indecorosi e senza speranza? Dove sono le comunità del ministro Nordio per chi come Kafi ha ancora pochi mesi da scontare e non ha un posto dove andare? Ci vorrebbe una task force per recuperare un senso minimo di umanità, di decenza, di amore.
Qual è la tua reazione?






