Intimità in carcere, la storia di Gianluca e e ferite emotive

Lug 23, 2025 - 03:30
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Intimità in carcere, la storia di Gianluca e e ferite emotive

1. L’epicentro della nostra Costituzione è la persona umana immersa in un fascio di relazioni che concorrono a definirne l’identità. Questo ci narra la trama costituzionale. Ad esempio, declinando i diritti di libertà come «rapporti» (civili, etico-sociali, economici, politici), cioè relazioni umane. O illustrandoli come una spirale che muove dall’inviolabilità del proprio corpo (art. 13 Cost.), per espandersi poi in spazi di relazione progressivamente sempre più ampi: domicilio, corrispondenza, circolazione, riunione, associazione, confessione religiosa, manifestazione del pensiero, e così via.

I Costituenti, dunque, hanno immaginato «una convivenza in cui la qualità delle relazioni ha un peso cruciale», scrive esattamente Donatella Stasio nel suo ultimo libro, L’amore in gabbia. La ricerca della libertà di un reduce dal carcere (a cura di Daniela Padoan, Castelvecchi 2025). Serve partire da qui per capire il senso autentico di una pubblicazione che – obbedendo alla passione civile della sua Autrice – è un’opera eminentemente politica. Non si tratta, infatti, di un romanzo carcerario né di un reportage penitenziario. La biografia di Gianluca, dentro e fuori le patrie galere, incarna il tema scabroso del libro: «Il diritto all’affettività e alla sessualità negato in carcere», dove non c’è spazio per la relazione umana più intima e primaria che ci sia. Da cronista di vaglia qual è, Stasio sa cogliere «anche nelle microstorie di ordinaria deprivazione», come quella di Gianluca, i segnali di «una democrazia in ritirata». E così, ricalcando la trama costituzionale, anche il suo libro procede a spirale: dall’«amore in gabbia» alla «gabbia dei nuovi autoritarismi». Dal corpo ristretto al corpo sociale, entrambi castrati nei loro diritti.

2. Nell’era della disinibita ostentazione social, ci siamo assuefatti e rassegnati all’idea che “il privato è pubblico”, dimenticando invece che “il personale è politico”. A cominciare – come insegna il movimento di liberazione delle donne – dalla relazione amorosa, perché «per imparare a vivere bisogna imparare ad amare». Ecco perché l’amore in gabbia «non è solo una questione privata, ma anche politica». Il potere disciplinare e di sorveglianza ispirato al panopticon benthamiano disinnesca la forza vitale di quella relazione. Come? Attraverso la regola del controllo a vista del corpo detenuto. Un controllo ininterrotto e pervasivo che non ammette pause o deroghe: neppure nel momento del colloquio con il partner. Ogni intimità è impossibile. In sale sovraffollate, il bisogno di affettività diventa esibizionismo non tollerato. Impulsi, emozioni, gesti: tutto viene congelato per autodifesa. Quell’incontro tanto atteso e preceduto da un preciso rituale (il caffè nel thermos ingiallito, le merendine del Mulino Bianco conservate per l’occasione, il vestito buono indossato, i capelli in ordine «e un sorriso stampato sulla faccia») si trasforma così in «una messa in scena», frustrante e vessatoria per tutti.

Nelle fonti normative penitenziarie (legge, regolamento, carta dei diritti del detenuto), tutto ciò che attiene all’intimità sessuale non è contemplato: «Non si fa», punto e basta, conferma Gianluca. Lo dice anche diversamente: «Masturbati e non rompere il cazzo, è molto semplice», più di quanto possa essere praticare l’onanismo in celle sovraffollate e spiate dall’esterno, o in cessi dalle porte senza serrature. Dopo anni di detenzione, il corpo ristretto diventa così un peso morto, un fardello da portare, inappagato in quel bisogno di fisicità che – prima ancora di una pulsione – è un’esigenza esistenziale, perché «serve a sentire i limiti del proprio corpo, i confini della propria identità». Il carcere, al contrario, rende il corpo ristretto – in apparenza funzionante, spesso maniacalmente allenato – affettivamente disabile: braccia che non abbracciano, mani che non accarezzano, dita che non scivolano sulla pelle dell’altro, labbra che non baciano. Chi, prima della detenzione, ha coltivato una relazione amorosa, ne perde memoria e finanche nostalgia, sprofondando nell’alfabetismo e nell’ignoranza affettiva. Tutto ciò tradisce la Costituzione. Il suo art. 27, 3° comma, esige una pena sempre orientata alla rieducazione del condannato, e «la (ri)educazione costituzionale dovrebbe andare di pari passo con l’educazione sentimentale, perché non c’è (ri)socializzazione senza aver imparato a connettersi con le proprie emozioni e senza aver sviluppato una capacità relazionale affettiva». Invece, quelli che escono dal carcere trascinano un corpo incatenato «ben oltre il fine pena»: come reduci di guerra, sono mutilati «nel corpo e nella dignità, amputati dei sentimenti, della sessualità, della capacità di amare, della libertà».

3. Gianluca è uno di loro. Classe 1975, nato da famiglia di emigranti del Sud insediatasi nell’hinterland milanese, quartiere borderline di Quarto Oggiaro. Da bambino «mutacico» si trasforma in adolescente fuori controllo: spaccia cocaina, fa uso di droghe, detiene armi. Tra i 17 e i 30 anni di vita, ne trascorre più di 11 in galera (Beccaria, Fossombrone, Busto Arsizio, Bollate), alternandoli a brevi periodi di libertà. Esce definitivamente dal circuito penitenziario nel 2005. Oggi ha cinquant’anni e – assecondato dall’ascolto partecipe e dalla penna empatica dell’Autrice – racconta la propria «mala-vita sentimentale». Nessun vittimismo, né alcun giustificazionismo autoassolutorio: Gianluca riconosce le proprie responsabilità. Ciò rende credibile il suo racconto e dà forza alla sua testimonianza mai reticente, resa senza pudori, generosa di sé. La sua vita è una lunga attraversata nel deserto affettivo: in famiglia, nelle relazioni di coppia, all’interno della comunità carceraria. Durante la detenzione ha tenuto lontano da sé sentimenti d’amore e desideri sessuali: «È stato. Punto. Senza aggettivi, come lui dice per descrivere la condizione del vuoto emotivo» che lo ha accompagnato per oltre 11 anni.

Oggi, ricostruita con successo una propria identità professionale (Gianluca «è uno che ce l’ha fatta»), mostra ancora le cicatrici di una «emotività inesistente». Vive in una casa senza porte, sostituite da tendine veneziane, perché «non sopporta di restare chiuso in una stanza». Non riesce a reggere troppo a lungo la compagnia degli altri, calamitato dal bisogno di ritirarsi nella sua tana. Ha alle spalle tre storie d’amore importanti, tutte fallimentari: se, dietro le sbarre, Gianluca ha appreso la regola aurea di «non tradire mai», fuori dal carcere, invece, «tradisce tutti», vivendo sempre «relazioni nelle relazioni», incapace di strutturarne una duratura e costante. Attraverso questo profondo scavo interiore (che fa del libro un setting di autoanalisi) e aiutato dal rapporto affettuoso con la figlia Ginevra, Gianluca si mette «in movimento». L’augurio del lettore è che sappia, finalmente, uscire dalle sabbie mobili del suo deficit emotivo e relazionale.

4. Il libro di Donatella Stasio ha il grande merito di far comprendere la portata epocale della sentenza costituzionale n.10/2024, che ha riconosciuto il diritto all’affettività in carcere. Culturalmente, quella decisione avvia una rivoluzione copernicana, non a caso ostacolata – per 15 mesi – dall’amministrazione penitenziaria. Scongela «l’ibernazione emotiva» che i detenuti subiscono, talvolta scegliendola. Rompe il machismo del codice interno al carcere, che ridicolizza il bisogno di fisicità come segno di debolezza. Scardina la regola aurea del panopticon, sottraendo al suo controllo occhiuto l’intimità dell’incontro amoroso. Riconosce il diritto all’intimità inframuraria evitando che, ridotto a mero beneficio extra murario, sia piegato a tecnica di disciplinamento. La copertina del libro riproduce il murale realizzato dai detenuti nella stanza per i colloqui intimi del carcere di Terni, dove questo processo ha iniziato il suo corso. Ad oggi ne mancano 189, tante quanti i rimanenti istituti di pena. Cosa si aspetta ancora?

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