Humana, il business ‘charity’ degli abiti usati vale oltre 28 milioni di dollari

Lug 23, 2025 - 20:00
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Humana, il business ‘charity’ degli abiti usati vale oltre 28 milioni di dollari
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Un valore di 28,3 milioni di dollari (24 milioni di euro) ricavati dalla sola vendita di abiti usati, 593 negozi tra Europa e Stati Uniti, 180 tra Africa e Belize, oltre 31 milioni di acquirenti e un indotto diretto di circa 8 mila posti di lavoro. I numeri non sono quelli di un brand del fashion ma è la cifra generata nel 2024 da Federazione Humana People to People, federazione internazionale di organizzazioni non governative (ONG) indipendenti presenti in 29 Paesi. Registrata in Svizzera ma con sede nello Zimbabwe, Federazione Humana People to People è dedita a progetti di cooperazione internazionale, educazione, salute e sviluppo sostenibile, principalmente in Africa, Asia e America Latina. In un equilibrio almeno apparentemente impeccabile tra fashion e charity, a trainare la crescita della Federazione sono proprio i negozi sotto l’insegna Humana Vintage e Humana People che, secondo quanto dichiarato dalla stessa associazione, attraverso le vendite di vestiti usati, ricavano il 23% delle fonti di finanziamento per i progetti di sviluppo.

Cavalcando l’onda del successo del mercato del vintage e del second hand, la fondazione no profit vanta numeri che raccontano la portata di un sistema ben più strutturato di quanto possa sembrare a primo acchito. “La percentuale di finanziamenti derivati dalla vendita degli abiti usati dal 2020 a oggi è aumentata progressivamente a livello di Federazione, ma anche in Italia crediamo molto in questo trend: lo dimostra il fatto che il nostro piano retail è in espansione”, racconta a Pambianconews Luca Gilardi, retail director di Humana People to People Italia. Sebbene il percorso di Humana in Italia sia iniziato nel 2015, molto dopo il debutto in Paesi europei come Spagna e Germania (ora mercati ben più solidi e grandi dell’Italia), Humana People to People Italia conta ad oggi 20 negozi: 16 a insegna Humana Vintage e 4 Humana People, distribuiti tra Milano, Torino, Roma, Bologna, Genova, Parma e Verona. “Solo per l’Italia, la vendita e la valorizzazione degli abiti usati che raccogliamo riveste al momento il 60% delle fonti di finanziamento per i progetti di sviluppo. A giugno abbiamo inaugurato due nuovi punti vendita: il primo store Humana Vintage a Parma e un Humana People a Bologna. Stiamo valutando nuove aperture anche al sud Italia ed entro la fine del 2025 apriremo due negozi in due città nuove per noi”, aggiunge Gilardi.

Come dimostrano i bilanci pubblicati, il 2024 per Humana Italia è stato un anno di consolidamento finanziario. Sebbene l’utile netto sia sceso da circa 402 mila euro a poco più di 14 mila euro, si registra una riduzione del debito e un aumento delle immobilizzazioni finanziarie, in particolare delle partecipazioni (da circa 48 mila euro a oltre 162 mila euro), sintomo di investimenti a lungo termine a conferma della volontà di espansione della società. Il business di Humana People to People Italia replica il modello delle altre 28 società appartenenti alla Federazione Humana People to People. La società infatti è così suddivisa: da un lato detiene una Scarl (Società Consortile a Responsabilità Limitata), Humana People to People Italia Società Cooperativa a r.l. per gestire l’intero business della rivendita degli abiti, dall’altro da una Humana People to People Italia ONLUS che riceve i proventi derivanti dalle attività operative della Scarl per finanziare progetti sociali nei Paesi del Sud del mondo.

In Italia, i negozi Humana stanno proliferando rapidamente al ritmo medio di due aperture all’anno. Una crescita misurata, ma costante, che risponde a una strategia precisa. “Un criterio importante per la valutazione dell’apertura di un punto vendita Humana è il bacino d’utenza: puntiamo a città medio-grandi, poi analizziamo anche la presenza dei nostri target di riferimento, come popolazione studentesca e universitaria e visitatori internazionali”.

Il modello retail è costruito su una catena integrata: gli abiti provengono da contenitori stradali e donazioni, vengono selezionati, prezzati a mano da addetti specializzati e venduti nei punti vendita fisici e online. Il prezzo dei capi, spiega Gilardi, “viene definito sulla base dei listini del nuovo e delle tendenze del momento. Cerchiamo di valorizzare ogni singolo pezzo mantenendo però coerenza su tutta la catena”. Ad oggi il successo di Humana passa attraverso i punti vendita fisici, tuttavia, sebbene sia ancora acerbo, l’e-commerce è un canale di vendita in via di sviluppo su cui, come spiegano dalla società, ha allo studio una nuova veste per rendere la piattaforma ancora più verticale e valorizzare specifiche categorie di prodotto.

Ph: Save The Duck

La proposta spazia dal vintage al second hand contemporaneo. Nonostante ciò, per i suoi canali di rivendita Humana non punta a presidiare il segmento del lusso. “Nel volume degli abiti raccolti c’è una piccola parte di capi e accessori appartenenti alla categoria lusso ma il nostro obiettivo rimane sostenere la mission sociale dell’organizzazione e non intendiamo modificare il nostro modello verso altre direzioni”, prosegue il manager. Più che il resale di lusso, per il futuro Humana sembra infatti guardare alla collaborazione con i brand. “Siamo in contatto con diversi marchi di moda e confidiamo nell’avvio di un crescente numero di partnership di filiera”. A confermare l’intenzione di rafforzare il modello ci sono anche le numerose partnership attive con aziende come Timberland, Patagonia, OVS, Woolrich, VF International, Apple, Amazon Logistics e Microsoft. Collaborazioni che permettono di ottenere, oltre ai fondi devoluti ai progetti, abiti da inserire nella filiera di Humana e trasformare in supporto economico per le attività della fondazione. Ultima in ordine di tempo, quella con il marchio outerwear Save the Duck.

“Il nostro settore però sta attraversando una fase molto delicata, con diverse sfide e opportunità. Da un lato l’ascesa dell’ultra fast-fashion ha abbassato molto la qualità e durabilità dei capi, minando la qualità dell’offerta second hand; dall’altro, le nuove normative che riguarderanno l’ecodesign e la responsabilità estesa del produttore (EPR) avranno conseguenze su tutta la filiera, compresa quella del post-consumo, che gioca un ruolo chiave nella riduzione dell’impatto ambientale del settore tessile e moda”, conclude infine Gilardi.

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