Loro Piana e gli altri: ecco il caporalato di lusso

Turni massacranti di tredici ore al giorno senza riposi, sul contratto però ne erano previste solo quattro. E il pagamento in nero (1500 euro al mese) per cucire pregiatissime giacche in cashmere, rivendute poi in negozio a un prezzo tra i mille e i tremila euro. Capi destinati alla boutique Loro Piana, maison di LVMH, gruppo francese nato nel 1987 e controllato principalmente da Bernard Arnault e dalla sua famiglia.
Tutto è partito dalla denuncia di un sarto cinese che lavorava in un laboratorio illegale della filiera produttiva dell’azienda italiana di lusso a Baranzate, hinterland milanese. E che ha sopportato quelle condizioni per anni (viveva in un dormitorio abusivo adiacente al laboratorio dal 2015) finché non sono comparsi gravi ritardi sui pagamenti. A quel punto, si è presentato di fronte al titolare, anch’egli cinese, per chiedere spiegazioni. Quest’ultimo, di tutta risposta, lo ha aggredito a pugni e colpito con un tubo di plastica e alluminio. Lo ha ferito al punto che il sarto si è dovuto recare in Pronto Soccorso. Da qui, le indagini, guidate dal pm Paolo Storari, che hanno scoperchiato il vaso di pandora: in quel laboratorio, su dodici dipendenti, sei erano irregolari. E a tutti era stato dato ordine di fuggire se si presentava qualcuno che non fosse un cliente abituale. Stando alle ricostruzioni, il margine di guadagno per capo poteva toccare i 2000 euro, a fronte di costi di produzione dichiarati intorno ai 118 euro, in caso di grandi ordini. Adesso per Loro Piana è stata disposta l’amministrazione giudiziaria, con le indagini dei pm di Milano che hanno “consentito di appurare come la Loro Piana spa abbia affidato la produzione dei capi di abbigliamento (tra cui le giacche) in via diretta alla Evergreen Fashion Group srl e che la realizzazione di tali beni sia stata effettuata in contesti lavorativi operanti in regime di sfruttamento dei lavoratori”.
Non si tratta di un episodio isolato, ma di un vero e proprio meccanismo di sfruttamento del lavoro che caratterizza la filiera del lusso: è il quinto caso in poco più di un anno, dopo quelli che hanno coinvolto, tra gli altri, Armani Operations, Dior e Valentino. Sono le conseguenze dell’esasperata esternalizzazione delle produzioni che più si allontanano dalla casa madre, più diventano terra di nessuno. Il caso Loro Piana ne è il perfetto esempio: la Evergreen Fashion Group, non avendo le capacità produttive adatte, aveva a sua volta subappaltato ad un’altra azienda, la Clover Moda srl, quella del sarto che poi ha fatto partire la denuncia. Si capisce bene che è proprio nelle maglie di questo sistema “a scatole cinesi”, fatto di appalti e subappalti, che prosperano ingiustizie e sfruttamenti.
Un impianto che poi fa da scudo perfetto alle grandi case di moda. Loro Piana si è infatti difesa dicendo di non essere a conoscenza di quello che succedeva nella sua filiera: non sarebbe stata informata dalla Evergreen dell’esistenza di un’ulteriore catena di subfornitori, cioè la Clover, e quindi sulle condizioni lavorative di chi produceva le costosissime giacche. Ma per la Procura, un’azienda delle dimensioni e della rilevanza di Loro Piana deve avere la responsabilità di mettere in piedi meccanismi per controllare tutta la propria filiera produttiva. Non solo: gli audit organizzati da Loro Piana – cioè le ispezioni che vanno fatte nelle aziende a cui viene affidato il lavoro – erano sostanzialmente operazioni di facciata: la procura ha definito i controlli dell’azienda «più formali che sostanziali», a partire dal fatto che quando ha affidato una parte di produzione a Evergreen non ha verificato se la società potesse concretamente realizzare i capi. Da qui l’accusa di aver instaurato rapporti stabili “con soggetti dediti allo sfruttamento dei lavoratori” e agevolato “colposamente” il caporalato cinese. Perché di caporalato si tratta.
E ne è convinto anche il segretario generale della Flai Cgil del Lazio Stefano Morea, che da anni si occupa del fenomeno nel settore agricolo, e che oggi dice a L’Unità: “Il caporalato è un tema di tutti i settori. Voglio fare un parallelismo quasi azzardato” e spiega: “Come il caporale sta all’azienda agricola, allo stesso modo la ditta appaltante sta all’appaltatore. Per forza di cose è così: questi uomini e donne sfruttati si muovono in quel contesto lavorativo, non sono persone invisibili, e quindi le responsabilità non possono non essere viste dall’appaltante. Noi crediamo fermamente che serva una ricostruzione dell’ambito lavorativo”. E aggiunge: “Il caso Loro Piana rappresenta perfettamente la preoccupazione che ci muoveva quando noi, in modo ostinato, cercavamo di fare in modo che la legge 199/2016 (quella contro il caporalato, ndr) fosse anche un elemento giuridico che potesse dare responsabilità all’attore principale, cioè all’imprenditore committente, che non può non essere al corrente di ciò che accade nelle proprie aziende o nell’azienda dei fornitori”. “Il non riconoscere l’azienda committente – continua Morea – è l’errore di non comprendere che il fenomeno si basa proprio su questo: sulla necessità del committente di ridurre al minimo i costi, sapendo perfettamente quale è il costo del lavoro”.
Ma a favorire il caporalato nella filiera del lusso (e non solo) sono anche altri fattori. E di soluzioni per poter, se non risolvere, quantomeno migliorare la situazione, ce ne sarebbero. Dice il segretario della Flai Cgil: “Non si può più rimandare il tema della cancellazione o della riforma della legge Bossi-Fini. Da quel momento, il modello di ingresso nel mondo del lavoro italiano deve essere accompagnato da un obbligo di assumere la persona chiamata e/o di contribuire alla sussistenza di quella persona sul territorio. E c’è anche il tema di chi è in Italia da decenni e non ha il permesso di soggiorno: bisogna aprire immediatamente ai permessi di soggiorno per attesa occupazione. Questi tre elementi devono essere “concatenati”, altrimenti rischiano di essere inefficaci”. Senza contare, conclude Morea, le “storture” provocate dal metodo del decreto flussi: “I lavoratori che entrano in Italia con questo sistema si indebitano perché le “pratiche” fatte di intermediazioni e ricatti possono costare anche 10mila euro. Abbiamo dei fantasmi sotto ricatto, che hanno la necessità di assolvere al debito perché in patria lasciano spesso pezzi importanti di famiglia. Questo è il contesto che le nostre leggi generano dall’altra parte del mondo”. Un contesto che, troppo spesso, costringe i lavoratori stranieri a sopportare in silenzio sfruttamento e abusi.
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