Il pianeta che verrà, e le sinergie tra adattamento e mitigazione

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Chiva, a meno di un’ora di auto da Valencia, è una cittadina di circa sedicimila abitanti attraversata da un torrente stagionale (in Spagna lo chiamano barranco) molto sensibile alle precipitazioni intense. Qui, il 29 ottobre 2024, nel giro di poche ore è caduta la stessa quantità di pioggia che generalmente si registra nell’arco di un anno.
Il comune di Chiva è stato definito l’epicentro della grande alluvione nel Sudest della Spagna, zona colpita dall’evento meteorologico estremo che forse più di tutti ha scosso l’immaginario collettivo europeo: nessun continente è davvero al sicuro, il cambiamento climatico è qui e ora, e dobbiamo rimodellare urgentemente il mondo in cui viviamo. Più di duecentoventi morti e diciassette miliardi di euro di danni è un bilancio impossibile da ignorare.
Qualche giorno dopo l’alluvione, sui social media italiani è diventato virale questo post pubblicato su X, l’ex Twitter: «Vista la tragedia di Valencia, alziamo gli argini, costruiamo dighe più robuste, vasche di raccolta per le acque. Più cemento, non meno». L’autore è Giovanni Toti, ormai ex presidente di una Regione, la Liguria, dove più di 360mila persone vivono in aree a rischio di frane o alluvioni, stando alle stime dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra).
Pianeta ideale vs. pianeta reale
L’appello di Toti è l’emblema del divario tra pianeta ideale e pianeta reale, progettato in un periodo storico in cui gli effetti del cambiamento climatico di origine antropica non erano ancora così evidenti e omogenei. Basti pensare agli incendi del gennaio 2025 in California, dove le fiamme hanno inghiottito soprattutto case prefabbricate costruite in legno e circondate da piante ignifughe: gli ingredienti della tempesta perfetta.
In uno scenario in cui fenomeni come alluvioni, ondate di calore, siccità e uragani risulteranno sempre più estremi e frequenti, la sola pulizia dei tombini, l’innalzamento di barriere anti-inondazione, la costruzione di strade climatizzate (a Dubai, ma non solo, succede) o la neve artificiale a bassa quota non possono essere risposte logiche a una natura che, almeno nel medio periodo, non è destinata a placarsi.
«Negli anni ci siamo accorti che la difesa attiva non è risolutiva. Nel frattempo il livello del mare continua a crescere, la temperatura sale e gli eventi estremi aumentano. La strategia vincente è quella che segue i vantaggi che ti dà la natura. Non è un discorso ecologista da quattro soldi, è scienza », racconta Giulio Betti, climatologo e meteorologo del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr), che cita la rinaturalizzazione del Reno come esempio virtuoso: «La vegetazione è stata ripristinata ed è stata restituita l’anastomizzazione al corso d’acqua. Significa che sono stati riconsegnati al fiume quasi tutti gli spazi verdi che aveva in origine. L’intervento ha permesso di tollerare mille metri cubi d’acqua al secondo in più rispetto a prima durante un’alluvione».
Adattamento climatico
La sfida climatica si gioca su due terreni diversi, che sono ugualmente importanti e devono guardare nella stessa direzione. Il primo, quello descritto finora, rientra nella definizione di adattamento, un tema che necessita di un’urgente svolta narrativa a tutti i livelli: istituzionale, mediatico, imprenditoriale, educativo. «È un lavoro multiscala e multisettoriale, che ha bisogno di tutte le professionalità e tutti gli attori, dalle aziende alle scuole. L’azione climatica deve diventare orizzontale», dice Elena Granata, professoressa di Urbanistica al Politecnico di Milano e autrice di diversi libri e articoli dedicati – tra le altre cose – alla progettazione di città a misura di climate change.
Adattarsi significa ridurre l’impatto del riscaldamento globale attraverso piccole e grandi strategie da attuare soprattutto a livello locale. Per farlo in modo efficace e rapido bisogna avere immaginazione e umiltà, due qualità che in questo contesto si concretizzano in precise volontà politiche e industriali: fare un passo indietro, smettere di consumare suolo e ascoltare ciò che la natura vuole comunicarci.
La coltivazione del mango in Sicilia; la riconversione del turismo montano sotto i duemila metri; la riforestazione tramite i droni; l’eliminazione dell’asfalto nelle zone più cementificate delle città (depavimentazione); un tetto o una facciata verde; il ripristino della vegetazione che scorre ai lati di un fiume: quelli appena elencati sono tutti interventi diversi tra loro ma che rientrano nella definizione di adattamento climatico, che deve allargarsi anche ai campi dell’educazione, dei sistemi preventivi di allerta (che nella Comunità Valenciana non hanno funzionato) e della gestione del rischio nel settore assicurativo.
«Oggi sappiamo cosa dobbiamo fare, non dobbiamo inventare soluzioni e abbiamo tutte le indicazioni necessarie. Il vero deficit è la capacità operativa. Mai nella storia dell’umanità abbiamo avuto al contempo così tanta chiarezza sulle soluzioni e così poca capacità di implementarle», continua Granata, che recentemente si è occupata del Piano Clima di Seregno (MB).
Mitigazione climatica
Il secondo terreno della partita contro questo “nuovo” clima è la mitigazione, un termine che include le strategie in grado di intervenire direttamente sulla riduzione delle emissioni di gas serra. Energie rinnovabili al posto dei combustibili fossili, edifici a basso consumo energetico, mobilità sostenibile, stop agli allevamenti intensivi e così via. Si tratta di misure più sdoganate e diffuse – sia nell’immaginario collettivo, sia a livello industriale – rispetto alle pratiche di adattamento, anche se l’ambizione deve crescere da entrambe le parti.
«L’adattamento diventa centrale nell’attenzione pubblica per alcune settimane dopo un evento estremo, per poi perdere visibilità. Tuttavia, per le comunità colpite il tema resta prioritario. È più popolare la mitigazione? Forse sì, perché genera più dibattito e controversie. Ma è sempre più evidente che entrambe le strategie siano necessarie e debbano procedere parallelamente. Va però sottolineato che l’adattamento senza mitigazione rischia di risultare insufficiente nel medio-lungo termine, poiché l’assenza di riduzione delle emissioni potrebbe portare a un’intensificazione climatica tale da rendere inadeguate le misure di adattamento », spiega Serena Giacomin, meteorologa, climatologa e direttrice scientifica di Italian climate network (Icn).
Scherzare col fuoco
Senza una mitigazione sempre più spinta, non c’è adattamento che tenga. La prima ha effetti di lungo periodo ed è anche frutto di sfibranti trattative ai massimi livelli politici e diplomatici; il secondo ha spesso riscontri immediati e coinvolge direttamente i cittadini. Il problema, però, è che il trend della riduzione globale delle emissioni non è in linea con le indicazioni della scienza, nonostante i buoni ma timidi segnali che arrivano dall’Europa (taglio del 3,8 per cento delle emissioni nel 2024 rispetto al 2023, secondo il Global carbon project) e dagli Stati Uniti (-0,6 per cento).
I combustibili fossili, infatti, sono ancora troppo centrali nei mix energetici di tanti Paesi.L’Organizzazione meteorologica mondiale (Wmo), nel suo report di fine 2024, ha segnalato che la concentrazione atmosferica di gas climalteranti ha toccato un nuovo record nel 2023. Secondo le stime dell’Emissions gap report 2024 delle Nazioni unite, con le attuali politiche climatiche assisteremo a un incremento «catastrofico» delle temperature medie del pianeta: +3,1°C rispetto ai livelli pre-industriali nello scenario peggiore, +2,6°C nello scenario migliore. Due soglie ben lontane da quelle stabilite dall’accordo di Parigi (+1,5°C e +2°C), che ha messo nero su bianco i due limiti che ci separano dalle conseguenze più gravi del cambiamento climatico.
In più, il contesto geopolitico mostra un Green deal europeo depotenziato, gli Stati Uniti in mano a un negazionista climatico come Donald Trump e la Cina in una condizione di monopolio delle materie prime essenziali per la transizione ecologica. Senza dimenticare tutte le economie in via di sviluppo che non hanno il supporto e le tecnologie per avviare un’industrializzazione decarbonizzata.
Un pianeta da rimodellare
«Il sistema climatico ha un’inerzia: anche riducendo drasticamente le emissioni, il riscaldamento proseguirà ancora per diversi decenni. Di conseguenza, le misure di adattamento sono già oggi indispensabili e lo saranno sempre di più in futuro, in ogni scenario», prosegue Serena Giacomin. Secondo Giulio Betti, «la vera mitigazione climatica consiste nel tagliare all’origine la trivellazione (di gas e petrolio, ndr). In certe zone del mondo le emissioni diminuiscono perché siamo più efficienti dal punto di vista tecnologico, ma la materia prima fossile è la stessa. Nonostante i tanti soldi spesi per la riduzione delle emissioni, abbiamo mitigato poco. E, al tempo stesso, non ci siamo adattati, perché venti o trent’anni fa gli effetti del cambiamento climatico erano meno evidenti. È giunto il momento di adattarsi meglio».
Leggendo l’Adaptation Gap Report 2024 delle Nazioni unite, si nota in effetti che tra mitigazione e adattamento c’è sempre stato un importante divario di risorse economiche, al di là di un graduale assottigliamento: nel 2018 la finanza climatica destinava 14,0 miliardi di dollari all’adattamento e 27,9 alla mitigazione, mentre nel 2022 rispettivamente 27,5 e 46 miliardi. Lo stesso documento mostra che, a livello globale, l’unico settore che si sta davvero preparando agli effetti del riscaldamento globale è l’agricoltura.
Merito anche della diversificazione delle produzioni, delle nuove tecnologie (droni e robotica, immagini satellitari, coltivazione idroponica) e di colture più resistenti. Il settore primario, aggiunge Giacomin, «è uno di quelli più esposti agli impatti dell’estremizzazione climatica e, di conseguenza, considera prioritarie le azioni di adattamento».
Cercasi sinergia
Il pianeta che verrà, insomma, non può fare a meno né della mitigazione né dell’adattamento. Una delle soluzioni per fare passi avanti è una migliore sinergia tra le due strategie, da cui possono nascere ecosistemi più resilienti, un turismo più etico ed ecosostenibile, una gestione più lungimirante delle risorse idriche, centri urbani a misura di persona, cittadini più consapevoli e molto altro.
Una pista ciclabile affiancata da aiuole capaci di drenare l’acqua piovana in eccesso e ricaricare le falde: questa è cooperazione tra mitigazione e adattamento a livello micro, perché si affianca un’infrastruttura per la mobilità sostenibile (mitigazione) a una Nature based solution (Nbs) pensata per ridurre l’impatto di un’alluvione (adattamento). Un esempio più ampio può essere quello delle comunità energetiche rinnovabili, che consentono agli abitanti di un quartiere o di un piccolo paese di produrre e condividere energia pulita (mitigazione), consolidando relazioni ed educando i cittadini alla transizione verde (adattamento).
Lo stesso vale per l’agricoltura rigenerativa, che risana e rinforza i suoli danneggiati (adattamento), migliorandone al contempo la capacità di assorbire e trattenere il carbonio (mitigazione). «Creatività normativa» Come spiega Elena Granata, «l’adattamento climatico non è soltanto difensivo. Quando cambi la pelle di una città, modifichi gli spazi, rallenti e riorganizzi, adotti contemporaneamente uno stile di vita virtuoso e meno impattante».
Il salto di qualità è però ostacolato da nodi e vuoti normativi che rendono molte strategie di adattamento – funzionali anche alla mitigazione – ancora sperimentali e poco diffuse su larga scala. Secondo Giacomin, «manca un coordinamento sistemico che renda questi processi omogenei e accessibili. Esistono esempi virtuosi a livello locale, ma, senza un piano nazionale che supporti le azioni dall’alto, molte imprese incontrano difficoltà».
La direttrice scientifica di Italian climate network si riferisce anche al Piano nazionale di adattamento al cambiamento climatico (Pnacc), approvato nel dicembre 2023 e non ancora implementato. Granata ritiene che questa situazione di stallo si possa sbloccare anche coltivando una migliore «creatività normativa», fondamentale «in un momento in cui i vincoli – da questo punto di vista – non sono ancora tanti e c’è quindi lo spazio per inventare».
Parlare di soluzioni
I tecnici e gli amministratori locali, secondo la docente del Politecnico di Milano, dovrebbero avere a disposizione un «piano dei piani, che in realtà non è un piano»: non si tratta di un regolamento tradizionale, pieno di pagine e informazioni vaghe di lungo periodo, ma di «uno strumento molto operativo, un “luogo” dove si prendono decisioni e che metta in evidenza la sequenza delle cose che siamo disponibili a fare. Se governi una città, devi dirmi quali sono le dieci aree che depavimenti da qui a un anno, quanti alberi vuoi piantare. E devi anche essere conscio del fatto che non puoi fare tutto».
Un altro aspetto chiave del «piano dei piani», prosegue Elena Granata, è la capacità di coinvolgere più figure professionali e fornire alle comunità il margine – anche attraverso progetti educativi e formativi – per poter fare la differenza dal basso: «Quel “dal basso” è sempre stato considerato debole rispetto alla portata planetaria della crisi climatica. Oggi, però, “dal basso” significa mettersi in sicurezza. C’è un rovesciamento a valle dell’agire che, dal punto di vista dell’ambientalismo, è rivoluzionario».
Il cambiamento climatico è pervasivo e poliedrico per definizione, e in quanto tale può essere contrastato in tanti luoghi diversi: la transizione ecologica è una rivoluzione industriale, politica, normativa, sociale e culturale. Mentre Elon Musk immagina la vita su Marte, qui sulla Terra abbiamo gli strumenti e le soluzioni per mitigare e domare un’emergenza senza dubbio galoppante. Ma il ritmo del peggioramento è ancora nelle nostre mani.
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