Le barriere mentali che ci separano da un mondo più ecologico

Agosto 18, 2025 - 03:30
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Le barriere mentali che ci separano da un mondo più ecologico

Questo è un articolo del numero di Linkiesta Magazine Climate Forward ordinabile qui.

Preparare più pasti senza l’utilizzo di carne. Compostare gli scarti alimentari. Sostituire i fornelli a gas con quelli elettrici. Si tratta di scelte abbastanza semplici attraverso cui le persone, dalle loro cucine, possono dare un contributo nella lotta al cambiamento climatico. Eppure, la maggior parte dei cittadini non fa scelte di questo tipo. Come mai? Perché significherebbe cambiare le abitudini di una vita. Perché credono che non farà alcuna differenza. Perché pensano che i loro amici e i loro vicini non lo stiano facendo.

Le ricerche al riguardo hanno dimostrato che non è facile motivare le persone a ridurre le proprie emissioni. Ma ci sono alcune strategie che sembrano più efficaci, e gli esperti stanno cercando di individuare quali siano le migliori. Magnus Bergquist, professore associato di psicologia all’Università di Göteborg, in Svezia, sostiene che sia difficile perseguire una trasformazione diffusa dei comportamenti perché le persone hanno spesso degli obiettivi opposti.

Ad esempio, il cambiamento delle proprie abitudini o l’acquisto di prodotti ad alta efficienza energetica «possono essere in conflitto con gli obiettivi di chi cerca il comfort, il risparmio e l’accettazione sociale», spiega Bergquist in un’intervista video.

Anche chi è animato dalle migliori intenzioni può trovarsi di fronte a dubbi di questo tipo. Leah Murphy, sessantatré anni, di New Paltz, nello Stato di New York, dice che separa correttamente i rifiuti, ha ridotto l’uso della plastica, fa la spesa con borse di tela, ha installato lampadine a risparmio energetico e così via. «Più di trent’anni fa, quando è nato il mio primo figlio», spiega Murphy in un’intervista, «ho fatto in modo di avere anche un servizio di lavaggio dei pannolini perché si supponeva che fosse meno dannoso per l’ambiente».

I pannolini da lavare, però, erano sempre tanti e, quindi, dopo sei settimane Murphy passò ai prodotti usa e getta. «Mi sono detta», spiega oggi, «che l’energia utilizzata per lavare i pannolini di stoffa era probabilmente altrettanto dannosa per l’ecosistema di quanto lo fossero i pannolini usa e getta. Quell’esperienza ha rappresentato l’inizio di una lunga serie di tentativi di armonizzare razionalmente convenienza e coscienza. E, il più delle volte, ha prevalso la convenienza».

Inoltre, alcuni cittadini si preoccupano del fatto che la promozione di scelte individuali attraverso cui combattere il cambiamento climatico globale possa finire per consentire alle grandi aziende e ai governi di lavarsene le mani, o che, addirittura, tutto questo giochi a loro favore.

Ad esempio, nel 2004 la BP, che si occupa di petrolio e gas, nell’ambito di una sua campagna pubblicitaria ha creato un calcolatore dell’impronta di carbonio grazie al quale le persone avrebbero potuto misurare il loro impatto individuale sull’ambiente. Alcuni criticarono questa mossa, sostenendo che si trattasse semplicemente di un pretesto attraverso il quale una grande azienda si sgravava di ogni responsabilità, scaricando ogni onere sulle spalle dei consumatori e delle persone comuni.

Ma Anthony Leiserowitz – direttore del programma della Yale University che studia la comunicazione riguardo al cambiamento climatico (analizzando le conoscenze, gli atteggiamenti, i comportamenti e le preferenze politiche dell’opinione pubblica su questo tema) – ritiene che sia sbagliato considerare semplicemente «buone» o «cattive» le varie possibili misure di contrasto al climate change, che è un problema molto complesso. Certo, è vero che la BP creò quel calcolatore «come un modo per addossare le responsabilità ai singoli consumatori, ma questo non sottrae valore al concetto in base al quale quell’azienda diceva: “Beh, se davvero vuoi ridurre le tue emissioni, non sarebbe meglio iniziare con una stima di quanto stai emettendo?”», spiega il professor Anthony Leiserowitz in una videointervista. «Entrambe le cose possono essere vere», continua.

Secondo l’organizzazione Project Drawdown, che promuove soluzioni per la lotta al cambiamento climatico, le azioni individuali e le scelte domestiche – dalla riduzione degli sprechi alimentari all’installazione di lampadine a LED – possono potenzialmente ridurre le emissioni di gas serra di quel venticinque-trenta per cento necessario per evitare gli aspetti più pericolosi dei mutamenti all’interno del nostro sistema climatico.

Prendiamo, per esempio, il consumo di carne bovina. Le mucche – e, in misura minore, le capre e le pecore – contribuiscono in modo significativo alla produzione di gas serra con il metano che emettono dallo stomaco e attraverso il letame.

Inoltre, i pascoli per le mucche vengono perlopiù creati abbattendo delle foreste, con il conseguente rilascio dell’anidride carbonica immagazzinata negli alberi. Ma, secondo il World Resources Institute, se ogni persona che vive nei Paesi ad alto consumo di carne bovina, come gli Stati Uniti, mangiasse anche solo un hamburger e mezzo in meno alla settimana, verrebbe meno la necessità di aumentare a livello globale le attività di allevamento e non vi sarebbero, quindi, ulteriori deforestazioni. In questo modo, l’emissione di gas serra si ridurrebbe in modo significativo.

Tuttavia, è difficile modificare i comportamenti delle persone, persino quando si tratta di introdurre cambiamenti che, a prima vista, sembrano così banali. In realtà, a partire dagli anni Settanta, negli Stati Uniti il consumo complessivo di carne bovina è già diminuito notevolmente, non solo per considerazioni legate al clima ma anche per preoccupazioni riguardanti la salute e il benessere degli animali. Ma, davanti alla necessità di contenere il cambiamento climatico, questa riduzione deve essere più significativa. E, invece, nel 2022 il consumo di carne bovina è tornato a crescere leggermente, raggiungendo il livello più alto da più di un decennio a questa parte.

Il motivo per cui ciò sia avvenuto non è chiaro, ma questa inversione di tendenza è un esempio di quanto sia difficile modificare i comportamenti. «Alcuni sono ingenuamente convinti del fatto che se le persone vengono educate ne conseguirà automaticamente un cambiamento», dice Bergquist. «Ma non ci vuole molto per capire che non è così. Sappiamo che dovremmo fare più esercizio fisico, ma non lo facciamo. Sappiamo che dovremmo mangiare più sano, ma non lo facciamo. La conoscenza è un fattore necessario, ma non sufficiente. Inoltre, abbiamo bisogno di motivazione».

Bergquist è coautore di un’analisi dei dati provenienti da quattrocentotrenta studi sulle strategie per indurre comportamenti più rispettosi dell’ambiente, come la raccolta differenziata dei rifiuti in vista del riciclo oppure la sostituzione dell’automobile con la bicicletta o con l’abitudine di spostarsi a piedi. L’analisi di cui Bergquist è coautore ha individuato sei possibili strategie attraverso cui convincere le persone a cambiare i loro comportamenti, e la meno efficace di tutte si è rivelata quella che punta a informare i cittadini con il supporto di molti dati. 

Gli incentivi finanziari – come sconti, coupon e multe – possono, invece, fare la differenza. Tuttavia, secondo quella ricerca, la strategia più utile per indurre cambiamenti nelle abitudini è il confronto sociale (ovvero: «Che cosa stanno facendo i miei amici e i miei vicini?»), che spesso spinge i cittadini meno virtuosi a ridurre dell’uno o del due per cento i propri consumi. E, anche per quanto riguarda i pannelli solari, le persone si convincono a installarli se li vedono sui tetti dei loro vicini.

Anthony Leiserowitz dice di averlo notato nel suo stesso quartiere. «Noi siamo stati i primi a mettere i pannelli solari sul tetto, dieci anni fa, e ora ci sono dozzine di case che si sono convertite al fotovoltaico», racconta. «E questo non è avvenuto perché sono andato in giro a parlarne, ma perché i miei vicini hanno semplicemente visto che qualcun altro che è molto simile a loro ha adottato questa nuova tecnologia».

Spesso i cambiamenti collettivi (limitare la produzione di rifiuti, usare le cinture di sicurezza, moderare il consumo di alcolici…) avvengono solo gradualmente. Anche per ridurre il numero di fumatori, ad esempio, ci sono voluti molti anni e si è dovuto agire su vari fronti: sono state diffuse maggiori informazioni sui pericoli connessi al consumo di tabacco, sono state imposte delle restrizioni sul fumo nelle aree pubbliche, sono state introdotte delle tasse molto onerose sulle sigarette, è stata stigmatizzata pubblicamente l’abitudine di fumare ed è stata aumentata l’accessibilità ai programmi educativi e culturali che aiutano le persone a smettere.

«I cambiamenti sono lenti e difficili da percepire mentre avvengono, ma quando ci si guarda indietro, si nota come comportamenti un tempo improbabili siano ormai sempre più diffusi», dice Jason Mark, editor-in-chief della rivista specializzata Sierra Magazine, in un’intervista video.

Un report del 2019 di Rare – un’organizzazione no profit globale con cinquant’anni di storia che utilizza gli studi comportamentali per la propria azione a tutela dell’ambiente – ha esaminato sette scelte individuali e l’impatto che esse possono avere sul cambiamento climatico: passare a un veicolo elettrico; ridurre i viaggi aerei; seguire una dieta ricca di vegetali; compensare le emissioni di anidride carbonica; ridurre gli sprechi alimentari; prendersi cura del suolo che sequestra la CO₂; acquistare e produrre energia verde. 

Questo report ha rilevato che, se una persona su dieci adottasse un comportamento virtuoso – riducendo i consumi – in ogni categoria, le emissioni totali di gas serra degli Stati Uniti diminuirebbero dell’otto per cento. E ciò, afferma quel report, ridurrebbe dell’ottanta per cento il divario tra la situazione attuale e gli obiettivi climatici statunitensi.

Genevieve Guenther, autrice del libro “The Language of Climate Politics – Fossil-Fuel Propaganda and How to Fight It”, ha rilevato, però, come non siamo tutti ugualmente responsabili dei cambiamenti climatici. Secondo un rapporto dell’ong Oxfam International, le persone che appartengono all’uno per cento più ricco del pianeta producono una quantità di emissioni di anidride carbonica superiore a quella di cui sono responsabili, complessivamente, le persone che costituiscono il sessantasei per cento più povero del pianeta. Analogamente, uno studio pubblicato sulla rivista scientifica PLOS Climate ha rilevato che, negli Stati Uniti, il dieci per cento più ricco è responsabile di circa il quaranta per cento delle emissioni di gas serra.

Anche le azioni politiche, come votare un determinato partito o candidato e fare pressione su chi ricopre cariche pubbliche, possono essere d’aiuto, dice Genevieve Guenther in un’intervista video. «Di una cosa siamo davvero responsabili», spiega: «Indirizzare le nostre scelte in quanto attori politici per cercare di trasferire il potere, togliendolo a chi sta bloccando la transizione dai combustibili fossili e dandolo alle persone in grado di guidarci verso un futuro vivibile».

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