Gallerie contemporanee low‑key: il lato nascosto di Londra

Londra è una città che ha sempre fatto dell’arte un elemento centrale della propria identità. Ma se i turisti affollano istituzioni imponenti come la Tate Modern o la Royal Academy, c’è chi preferisce cercare percorsi meno battuti, silenziosi ma non meno significativi. Le gallerie d’arte contemporanea low‑key di Londra sono piccoli fari disseminati nei quartieri residenziali o nei capannoni rigenerati, e custodiscono una sorprendente energia creativa. A differenza delle gallerie commerciali e delle collezioni museali, questi spazi offrono al pubblico un’esperienza artistica autentica, sperimentale, spesso profondamente politica o personale. Sono ambienti dove la distanza tra artista e visitatore si accorcia, dove l’arte vive al ritmo delle persone e dei quartieri. In questo itinerario culturale andremo alla scoperta delle gallerie indipendenti, alternative e intime che raccontano una Londra diversa, più riflessiva, più sincera.
East London: laboratori creativi tra capannoni e comunità
Se c’è una zona di Londra dove l’arte contemporanea prende forma fuori dai riflettori, è l’East End. Questo quartiere, storicamente operaio e multiculturale, è stato negli ultimi trent’anni un fertile terreno di rigenerazione artistica. Tra magazzini dismessi, fabbriche riconvertite e cortili industriali, è nato un ecosistema di gallerie low-key che hanno saputo mantenere uno spirito autentico, spesso autofinanziato e fortemente radicato nel contesto locale. L’East End rappresenta il cuore sperimentale dell’arte contemporanea londinese, dove la distanza tra artista e spettatore si riduce fino quasi a scomparire.
Un esempio emblematico di questa trasformazione è la Chisenhale Gallery, situata in un’ex fabbrica degli anni ’40 affacciata sul Regent’s Canal, nel borough di Tower Hamlets. Fondata nel 1983 da un collettivo di artisti che abitava e lavorava nell’edificio stesso, la galleria è oggi una delle istituzioni artistiche più rispettate d’Europa nel campo della ricerca emergente. La sua programmazione è estremamente selettiva: solo quattro mostre l’anno, ciascuna realizzata su commissione, spesso con lunghi tempi di preparazione e un forte accompagnamento curatoriale.
La filosofia della Chisenhale è quella di fornire tempo, risorse e autonomia agli artisti per produrre opere nuove, spesso ambiziose, che sfidano le convenzioni espositive. Non si tratta di spazi per vendere opere, ma di piattaforme per indagare temi politici, sociali, ecologici, spesso con uno sguardo critico e radicale. Tra gli artisti che hanno esposto qui prima di affermarsi a livello internazionale troviamo Rachel Whiteread, vincitrice del Turner Prize nel 1993, e Lawrence Abu Hamdan, che ha rappresentato il Libano alla Biennale di Venezia. Recentemente, l’artista coreana Sojung Jun ha presentato un’installazione immersiva dedicata alle memorie femminili perdute, unendo video, soundscape e archivi orali.
Oltre alle esposizioni, Chisenhale organizza talk, performance, laboratori scolastici e programmi di formazione. Il suo impegno con la comunità è esemplare: la galleria lavora regolarmente con le scuole del borough, organizza visite gratuite e collabora con centri di quartiere. Per scoprire il programma attuale, le iniziative di partecipazione pubblica e le pubblicazioni curate internamente, è possibile consultare il sito www.chisenhale.org.uk.

La storica Beaconsfield Gallery di Vauxhall ospita arte sperimentale, installazioni e performance in uno spazio indipendente rigenerato con vocazione interdisciplinare
A meno di venti minuti a piedi, nella zona sud di Vauxhall, troviamo un’altra perla nascosta del panorama londinese: la Beaconsfield Gallery. Qui, in una ex scuola “ragged” dell’Ottocento, un edificio che conserva ancora intatte le sue pareti scrostate e le aule austere, è nata nel 1994 una realtà profondamente interdisciplinare. Beaconsfield è più di una galleria: è un laboratorio per pratiche ibride, che spaziano dall’arte visiva alla performance, dalla sound art alla teoria politica. La sua vocazione è quella di sostenere progetti che sfuggono ai generi tradizionali e che cercano nuove modalità di fruizione.
Un progetto significativo è stato “TestBed”, un’iniziativa di lungo periodo che ha ospitato artisti in residenza con l’obiettivo di indagare lo spazio espositivo come corpo vivo, in continua trasformazione. Le opere spesso interagiscono direttamente con l’architettura dell’edificio, oppure si sviluppano in forma di processo, senza un esito definitivo. In una mostra recente, ad esempio, la sound artist Larry Achiampong ha trasformato l’ex aula magna in un paesaggio sonoro che rievocava i suoni delle colonie britanniche, invitando il pubblico a camminare scalzo in mezzo alle casse acustiche e alle fotografie analogiche.
Beaconsfield lavora anche sul fronte sociale, collaborando con ONG, centri per richiedenti asilo e comunità locali per creare progetti site-specific che rispondono a problemi reali: razzismo sistemico, disuguaglianza, crisi climatica. La galleria è finanziata in parte dal Arts Council England, ma mantiene una forte indipendenza curatoriale. Il suo approccio è volutamente anti-spettacolare, low-tech e umanamente accessibile. Il sito ufficiale www.beaconsfield.ltd.uk ospita documentazioni delle mostre, pubblicazioni scaricabili e un archivio che vale la pena esplorare.
Queste due gallerie rappresentano bene la complessità e la profondità della scena artistica londinese più intima. Visitare Chisenhale o Beaconsfield non è solo un atto estetico, ma un modo per entrare in contatto con i grandi temi del nostro tempo. I visitatori sono invitati a fermarsi, riflettere, parlare con gli artisti, partecipare. Nessuna fila, nessun biglietto da staccare, nessun selfie davanti all’opera iconica. Qui si viene per ascoltare storie diverse, vedere con occhi nuovi, lasciarsi interrogare dall’arte.
Gallerie private e case-galleria: quando l’arte abita
Londra è una città che sorprende anche per la sua capacità di ridefinire i confini tra spazi pubblici e privati. Se nei grandi musei l’arte vive in luoghi istituzionali, asettici e musealizzati, alcune realtà hanno scelto di riportarla all’interno della dimensione domestica, creando gallerie d’arte all’interno di abitazioni reali. Queste case-galleria offrono un’esperienza completamente diversa: intima, informale, a misura d’uomo. È come visitare l’abitazione di un collezionista, con l’unica differenza che ogni stanza è pensata per esaltare la relazione tra opera, architettura e vissuto quotidiano. Uno degli esempi più affascinanti di questo approccio è sicuramente The Perimeter, una galleria privata nel cuore di Bloomsbury che ha saputo reinventare l’intero concetto di fruizione artistica.
Fondata nel 2018 dal collezionista greco Alexander Petalas, The Perimeter occupa una townhouse vittoriana di tre piani, restaurata con sensibilità dagli architetti di 6a Architects. L’interno è un capolavoro di minimalismo discreto: legno chiaro, pareti grezze, nicchie, passaggi segreti. Qui le opere non sono appese come in una white cube gallery, ma convivono con l’architettura, quasi si nascondessero tra i mobili o dietro un’ombra. Il visitatore non si muove come in un museo, ma come se fosse ospite in una casa: ci si siede, si osserva da vicino, si riflette in silenzio.
La collezione di Petalas comprende opere di Andra Ursuţa, Rachel Rose, Wolfgang Tillmans, Mark Leckey e molti altri protagonisti della scena contemporanea internazionale. Ogni mostra è curata con attenzione maniacale: l’arte viene selezionata per entrare in relazione con la struttura, con i corridoi, con le luci naturali che filtrano dalle finestre. Non c’è alcuna etichetta sulle pareti: per scoprire il nome di un’opera bisogna leggere il catalogo, oppure attendere la conversazione guidata. Questo approccio favorisce un contatto diretto con il lavoro artistico, senza mediazioni eccessive. Il sito ufficiale theperimeter raccoglie interviste agli artisti, fotografie d’autore e tour virtuali.
Le visite sono su appuntamento e gratuite, ma a numero limitato. Il consiglio è di prenotare con qualche settimana di anticipo, specialmente nei mesi primaverili ed estivi, quando le mostre spesso includono performance e installazioni site-specific. The Perimeter ha anche ospitato talk, concerti da camera e proiezioni, con un programma parallelo discreto ma curatissimo.
Un altro spazio che fonde abitazione e arte è la Danielle Arnaud Gallery, nel quartiere residenziale di Kennington. Aperta dal 1995 nella casa georgiana della fondatrice, questa galleria a conduzione familiare ha sempre avuto una vocazione sperimentale e interdisciplinare. Le stanze — soggiorno, studio, scale, giardino interno — sono trasformate in spazi espositivi, senza perdere la loro funzione originaria. È possibile vedere un’opera appesa sopra un caminetto acceso, o scoprire una scultura nascosta dietro una tenda. Qui l’arte non è mai isolata dal contesto, ma entra nella vita quotidiana e ne diventa parte.
La programmazione della galleria si concentra su progetti a lungo termine, spesso basati su collaborazioni tra artisti, scienziati, filosofi o architetti. Un esempio è il ciclo di mostre dedicate al rapporto tra ecologia e domesticità, con opere di Anne Eggebert, Helen Maurer, Susan Trangmar, che esplorano il paesaggio attraverso installazioni luminose, video e oggetti trovati. Danielle Arnaud è anche promotrice di progetti pubblici, con mostre allestite in ospedali, biblioteche e parchi, e ha spesso collaborato con il Wellcome Trust e il King’s College London per portare l’arte nella ricerca accademica. Per maggiori dettagli e mostre in corso, il sito di riferimento è daniellearnaud.com.
Ciò che accomuna questi spazi è la volontà di rallentare il tempo dell’arte, sottraendolo alla logica del consumo rapido. Non ci sono grandi folle, né sponsorizzazioni vistose. Il pubblico è spesso formato da studenti, artisti, ricercatori, curiosi del quartiere. Si entra in silenzio, si osserva con calma, si parla con i curatori o con gli stessi artisti, spesso presenti nei weekend di apertura. La visita non dura dieci minuti: può estendersi a un intero pomeriggio, magari con una tazza di tè in mano e un catalogo da sfogliare sul divano.
In un’epoca in cui tutto è diventato “instagrammabile” e l’arte rischia di ridursi a sfondo per selfie, queste case-galleria rappresentano una resistenza silenziosa ma tenace. La loro discrezione è il loro punto di forza. L’esperienza che offrono non è spettacolare, ma profondamente trasformativa.
Internazionalismo e voci globali: October Gallery e oltre
Londra non è solo una metropoli culturale, ma anche uno dei maggiori crocevia dell’arte internazionale contemporanea. La sua capacità di attrarre artisti da ogni angolo del pianeta si riflette in modo particolarmente intenso nelle gallerie low-key che operano lontano dai circuiti commerciali più noti. Fra tutte, la October Gallery è forse il riferimento più emblematico per chi cerca un’arte transculturale, radicata in contesti extra-occidentali e spesso esclusa dalle narrazioni dominanti dell’arte globale.
Fondata nel 1979, nel cuore del quartiere di Bloomsbury, October Gallery ha dedicato oltre quattro decenni a sostenere artisti provenienti da Africa, Asia, Medio Oriente, America Latina e Oceania. La sua missione è chiara: promuovere quella che i fondatori chiamano Transvangarde, una nuova avanguardia globale, che affonda le radici nei linguaggi tradizionali ma si esprime in forme contemporanee, spesso politicamente impegnate. In questo senso, October Gallery è molto più di una galleria: è un luogo di ricerca antropologica, residenza culturale e produzione teorica, come testimoniato dal ricco archivio di conferenze, talk e pubblicazioni disponibili sul sito octobergallery.co.uk.
Tra gli artisti che hanno trovato in October una piattaforma per raggiungere il pubblico europeo troviamo nomi come El Anatsui, nato in Ghana e famoso per le sue monumentali installazioni realizzate con materiali di scarto (tappi di bottiglia, metallo industriale), oggi esposte nei maggiori musei del mondo. Le sue opere sono un esempio potente di trasformazione materica e memoria collettiva, e proprio alla October Gallery ebbe una delle sue prime esposizioni fuori dall’Africa.
Altro nome centrale è Naomi Wanjiku Gakunga, artista keniota che lavora con materiali come acciaio e filo metallico intrecciato, creando installazioni che rievocano i tessuti tradizionali Kikuyu ma al tempo stesso parlano di identità migrante, globalizzazione e memoria orale. Anche Rachid Koraïchi, algerino, ha portato in galleria un progetto visionario: grandi tele calligrafiche ispirate ai testi sufi, che uniscono spiritualità e contemporaneità in un linguaggio estetico di forte impatto visivo.
Questa apertura alla pluralità dei linguaggi culturali non è casuale. October Gallery è stata uno dei primi spazi londinesi a rifiutare l’approccio eurocentrico alla curatela e ha favorito collaborazioni con università, ambasciate, ONG e artist-run spaces in tutto il mondo. Le mostre sono spesso accompagnate da programmi di approfondimento: conferenze con storici dell’arte, reading poetici, corsi brevi e perfino sessioni di cucina tradizionale collegate ai temi delle opere in mostra.
Lo spazio in sé, pur essendo centrale, mantiene un’atmosfera raccolta: sale con pareti grezze, luce naturale filtrata da finestre a vetri opachi, e una sala multifunzionale utilizzata per seminari o concerti. Il personale è disponibile, preparato, e spesso l’artista è presente in galleria nei giorni di apertura. La dimensione umana, ancora una volta, è centrale: qui l’arte è vissuta come dialogo, non come spettacolo.
A Londra, October non è l’unico spazio a promuovere un’arte internazionale e radicata nel presente. Nel quartiere di Kennington, ad esempio, opera Corvi-Mora, una galleria indipendente fondata da Tommaso Corvi-Mora nel 2000, con l’obiettivo di portare in scena artisti emergenti o sottovalutati dal mercato. Il suo spazio, rigoroso e discreto, ha ospitato le prime mostre di Roger Hiorns, artista noto per le sue sculture cristallizzate, e Lynette Yiadom-Boakye, pittrice britannica di origine ghanese nominata per il Turner Prize, le cui tele evocano figure nere in ambienti immaginari, sospesi tra passato e presente.
Corvi-Mora è nota anche per il suo approccio curatoriale sobrio ma sofisticato, che mette sempre l’opera al centro, senza mediazioni invasive. Non è raro trovare mostre silenziose, con una sola installazione in una stanza vuota, oppure cicli pittorici esposti senza cornici, appesi con perni nudi. Tutto punta a restituire l’autenticità del gesto artistico, senza sovrastrutture. Le mostre sono consultabili su corvi-mora.com.
Simile per orientamento, ma più esplicitamente legata alle pratiche queer e femministe, è Maureen Paley, pioniera nella promozione di artisti non conformi al mainstream già dagli anni ’80. Situata a Bethnal Green, la galleria ha rappresentato alcuni dei nomi più radicali della scena contemporanea, da Gillian Wearing a Wolfgang Tillmans, e continua a lavorare con collettivi e attivisti, trasformando le sue sale in luoghi di critica sociale e tensione poetica.
Ciò che accomuna queste gallerie è la volontà di espandere il canone dell’arte contemporanea, aprendolo a linguaggi, culture, esperienze e forme che spesso restano ai margini nei grandi circuiti. L’internazionalismo non è qui un’estetica esotica, ma una pratica etica e politica, fondata sullo scambio, sulla pluralità e sulla decolonizzazione dello sguardo.
Visitare questi spazi significa uscire dal comfort museale e affrontare un’arte viva, a tratti scomoda, che interroga il nostro presente e le sue diseguaglianze. Ma proprio per questo, ne esce un’esperienza più profonda, più vera, più necessaria.
Scene indipendenti e collettive: fiere, cantieri e comunità
Uno degli aspetti più affascinanti dell’arte contemporanea low‑key a Londra è la sua natura collettiva e autogestita, capace di trasformare qualsiasi spazio urbano – un parcheggio, un magazzino abbandonato, una stazione dismessa – in un luogo di produzione culturale attiva. In una città dove il mercato immobiliare è sempre più inaccessibile, molti artisti e curatori hanno scelto di fondare spazi indipendenti, festival temporanei e fiere alternative per sfuggire alle logiche commerciali e mantenere viva una scena artistica libera, critica, aperta.
Un esempio emblematico di questa tendenza è la Sluice Art Fair, nata nel 2011 come risposta diretta alla commercializzazione dell’arte nelle grandi fiere internazionali. Fondata da un gruppo di artisti e curatori, tra cui Karl England e Ben Street, Sluice è oggi una biennale che coinvolge gallerie, collettivi e progetti artist-run provenienti da tutto il mondo. La peculiarità di Sluice è che non ammette gallerie commerciali tradizionali: tutti gli espositori devono essere spazi gestiti da artisti, collettivi o curatori indipendenti. Le sedi cambiano ogni edizione: si è passati da un’ex tipografia a Bermondsey a un edificio brutalista a Hackney, fino a occupare un ex casinò a Mayfair. Questo spirito itinerante e provocatorio fa parte della sua identità. Il sito ufficiale sluice.info documenta tutte le edizioni, con focus su ogni progetto espositivo.
La filosofia di Sluice è chiara: restituire l’arte a chi la produce, sottraendola alle dinamiche di esclusività economica e aprendo nuovi spazi per il pensiero critico. Qui si espongono opere che parlano di gentrificazione, diritti LGBTQ+, migrazioni, ecologia, disuguaglianza urbana. Ma soprattutto, si espongono idee, proposte, visioni del mondo. Le opere non si comprano tanto quanto si esperiscono, si discutono, si vivono. In molte edizioni sono stati organizzati workshop aperti, forum pubblici, assemblee e laboratori per bambini. Anche la relazione con il pubblico è orizzontale: i visitatori diventano parte attiva del processo creativo.
Un’altra manifestazione unica nel suo genere è Bold Tendencies, progetto nato nel 2007 su iniziativa di Hannah Barry Gallery e oggi diventato uno dei simboli della scena artistica indipendente londinese. L’idea è tanto semplice quanto geniale: trasformare un parcheggio multipiano abbandonato nel cuore di Peckham in uno spazio espositivo a cielo aperto. Durante i mesi estivi, ogni piano del parcheggio ospita installazioni, sculture, interventi architettonici e performance. Le opere non sono isolate: dialogano con la vista mozzafiato sulla skyline di Londra, con il cemento grezzo dell’edificio e con la comunità del quartiere.
Bold Tendencies ha ospitato lavori di Richard Wentworth, Adel Abdessemed, Jeremy Deller, e collaborazioni con il London Contemporary Music Festival, oltre a performance live e reading letterari. Il tetto del parcheggio è anche sede del Frank’s Café, uno dei luoghi cult dell’estate londinese. L’esperienza di visita è unica: si arriva salendo scale antincendio o prendendo un ascensore industriale, si cammina tra installazioni monumentali, si ascolta musica sperimentale, si sorseggia un drink al tramonto. Il tutto, sempre, con ingresso gratuito. Il programma aggiornato è consultabile su boldtendencies.com.
Questi progetti si inseriscono in un più ampio panorama di arte urbana condivisa, che si sviluppa a partire da un forte radicamento nel tessuto sociale. A differenza delle istituzioni tradizionali, queste iniziative nascono “dal basso”, e si costruiscono grazie a reti di collaborazione tra artisti, cittadini, attivisti, piccole fondazioni, spazi rigenerati. L’arte diventa strumento di costruzione collettiva, e si lega spesso a progetti educativi, di rigenerazione urbana e di coesione sociale.
Nel quartiere di Deptford, ad esempio, la galleria Enclave Projects ha attivato una rete di studi, collettivi e spazi ibridi che condividono risorse e competenze. Ogni mostra è il frutto di un dialogo aperto tra diverse entità, e il quartiere stesso ne diventa protagonista. Simile per spirito è SET Space, una piattaforma che offre studi a prezzi accessibili ad artisti emergenti, sostenendo la produzione indipendente e attivando eventi itineranti, dal cinema sperimentale alla danza contemporanea. Entrambe le realtà promuovono modelli alternativi di economia culturale, resistendo all’omologazione del mercato.
Infine, va menzionato anche l’eccezionale lavoro svolto da The Showroom, a Marylebone, che da decenni si occupa di arte partecipativa e comunitaria. Le sue mostre – che spaziano dalla videoarte all’installazione sociale – sono sempre accompagnate da tavoli di discussione, materiali didattici, progetti con le scuole. È qui che l’arte low‑key si fa impegno civico, oltre che linguaggio estetico.
In tutte queste realtà, l’arte non si limita ad essere oggetto da ammirare. È azione, relazione, trasformazione. È un campo aperto, dove si sperimentano nuove forme di coesistenza, di narrazione collettiva e di cittadinanza culturale.
Fuori dal centro: creatività nei quartieri emergenti
Se Londra è una metropoli in costante mutazione, è nei suoi quartieri più periferici che spesso si trovano i segnali più chiari di innovazione culturale e fermento artistico indipendente. Le gallerie d’arte contemporanea low-key fioriscono anche fuori dal centro storico, in aree meno battute dai turisti ma ricche di identità, energia e narrazione sociale. Quartieri come Peckham, Walthamstow o New Cross sono oggi vere e proprie fucine creative, dove l’arte si lega alla rigenerazione urbana e alla coesione comunitaria.
Un esempio iconico e decisamente fuori dagli schemi è God’s Own Junkyard, a Walthamstow, nel nord-est di Londra. Si tratta di una galleria-laboratorio dedicata interamente all’arte del neon, fondata dall’artista e scenografo Chris Bracey, noto per aver lavorato con registi come Stanley Kubrick e Tim Burton. Il luogo è una vera esplosione visiva: centinaia di insegne luminose vintage, sculture luminose, frammenti di cinema, religione e cultura pop convivono in uno spazio a metà tra magazzino industriale e installazione permanente. L’ingresso è gratuito, e oltre all’esposizione è possibile visitare il café interno, il bar e il laboratorio dove i neon vengono ancora prodotti a mano. La galleria è diventata un punto di riferimento per creativi, designer e fotografi, e il sito godsownjunkyard.co.uk ne documenta storia e attività.
Spostandosi più a sud, Peckham si è imposta negli ultimi dieci anni come una delle zone più vitali per l’arte emergente londinese. Oltre a Bold Tendencies e al Frank’s Café (di cui abbiamo parlato nel paragrafo precedente), è qui che si trova la Hannah Barry Gallery, spazio fondato nel 2008 e dedicato principalmente a giovani artisti britannici. Hannah Barry è nota per il suo approccio curatoriale audace e spesso imprevedibile: ha organizzato mostre in serre, teatri, garage, e nel 2009 ha persino portato una selezione di artisti a mostrare le loro opere in un palazzo fatiscente nel cuore di Venezia, durante la Biennale. La galleria è diventata trampolino di lancio per nomi come James Capper e Saad Qureshi, e mantiene un forte legame con il quartiere, coinvolgendo scuole, associazioni e studi condivisi. Programma e archivi sono visibili su hannahbarry.com.
Più a sud ancora, a Camberwell, si trova un altro gioiello culturale: la South London Gallery, istituzione fondata nel 1891 ma completamente rinnovata negli anni Duemila con una missione inclusiva e partecipativa. Oggi SLG è uno dei principali hub dell’arte contemporanea accessibile e multidisciplinare. I suoi spazi comprendono una galleria principale, un bookshop, un giardino curato da artisti, un archivio, un caffè e persino un padiglione realizzato dallo studio giapponese SANAA. Le mostre includono artisti come Christina Quarles, Danh Vo, Katharina Grosse, ma anche progetti di arte comunitaria, laboratori per famiglie, attività con le scuole locali e un residency programme tra i più rispettati nel Regno Unito. L’approccio è quello di una galleria pubblica al servizio del territorio, che rifiuta ogni forma di esclusività culturale. Sul sito southlondongallery.org è possibile esplorare la programmazione e scaricare materiali educativi.
Un aspetto che rende queste gallerie “low-key” ma potentissime è il fatto che non puntano al grande evento, ma a una continuità culturale quotidiana. In questi spazi si può tornare più volte, partecipare a conversazioni, seguire workshop, portare i bambini o incontrare gli artisti senza alcuna formalità. La relazione tra arte e città è fluida, dinamica, reciproca. Ogni mostra è anche un pezzo di storia urbana, una finestra aperta sulla trasformazione dei quartieri.
Infine, non possiamo dimenticare realtà ibride come Gasworks a Vauxhall, che oltre ad essere una galleria è anche residenza per artisti internazionali: qui hanno lavorato nomi oggi celebrati come Yinka Shonibare e Goshka Macuga. Il centro offre studi, spazi comuni, e una galleria aperta al pubblico con ingresso gratuito. Il tutto con una filosofia di sostegno alla produzione e al dialogo interculturale. I progetti sono aggiornati su gasworks.org.uk.
Questi spazi, pur diversi per approccio, target e missione, condividono una stessa visione: rendere l’arte parte integrante della vita urbana, e non una parentesi spettacolare per pochi privilegiati. Visitare queste gallerie significa conoscere Londra da una prospettiva nuova: più sincera, più articolata, più umana.
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