Iran. Trump resiste alla guerra, Israele spinge per il conflitto

Aprile 26, 2025 - 07:30
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Iran. Trump resiste alla guerra, Israele spinge per il conflitto

di Giuseppe Gagliano

All’interno dell’amministrazione Trump si consuma un drammatico braccio di ferro sulla questione iraniana, dal quale dipenderanno le sorti della pace o della guerra in Medio Oriente, con inevitabili ripercussioni su scala globale. In questo scontro Israele gioca un ruolo primario, cercando di trascinare gli Stati Uniti in una nuova avventura bellica. Non si tratta solo di Benjamin Netanyahu, ma di un ampio fronte politico interno israeliano, come rivelano le dure dichiarazioni dei suoi principali avversari.
Yair Lapid, leader di Yesh Atid, ha lamentato l’indecisione di Netanyahu nel colpire i giacimenti petroliferi iraniani, mentre Naftali Bennett e Avigdor Liberman hanno accusato il premier di vigliaccheria, rimpiangendo tempi in cui Israele agiva senza tentennamenti, come nei bombardamenti dei reattori nucleari siriani e iracheni. Più articolato l’intervento di Benny Gantz, che ha invocato un’azione concertata con Washington per “cambiare il Medio Oriente” e neutralizzare il potenziale nucleare iraniano.
Nonostante la retorica sulla minaccia atomica, gli obiettivi di Tel Aviv appaiono ben diversi. Come documentato da uno studio della Columbia University, Teheran non dispone né intende dotarsi dell’arma nucleare. L’attacco ai siti iraniani mira piuttosto a eliminare un rivale geopolitico scomodo, consolidando il predominio israeliano nella regione. Con l’Iran indebolito, gli Accordi di Abramo spalancherebbero le porte alla sottomissione politica ed economica dei Paesi del Golfo, rinsaldando l’egemonia israeliana sotto l’ombrello strategico americano.
Questo spiega la frenesia di Israele nel sabotare ogni apertura diplomatica tra Washington e Teheran. Prima del secondo round negoziale, il capo del Mossad David Barnea e il ministro Ron Dermer si sono precipitati a incontrare Steve Witkoff, l’uomo incaricato da Trump di trattare con gli iraniani, tentando di dissuaderlo. Parallelamente, indiscrezioni di stampa riferivano di un possibile attacco israeliano unilaterale contro Teheran, ipotesi rischiosa ma non impossibile, che renderebbe quasi inevitabile l’intervento militare americano a fianco dell’alleato.
Trump però sembra intenzionato a resistere. Secondo il Jerusalem Post Witkoff ha ignorato le pressioni israeliane, costringendo il presidente americano a ribadire pubblicamente il presunto allineamento con Netanyahu: una excusatio non petita che tradisce la tensione sotterranea.
La frattura attraversa anche il cuore dell’amministrazione Usa. Il New York Times ha rivelato come figure di primo piano – Tulsi Gabbard, Susie Wiles, Pete Hegseth e il vicepresidente J.D. Vance – abbiano consigliato Trump di fermare l’eventuale attacco. Tra i frenatori figura anche il Consigliere per la Sicurezza nazionale Mike Waltz, sebbene le sue riserve siano di natura tattica: Waltz auspicherebbe un intervento congiunto, non un’azione isolata di Israele.
La posizione di Waltz, in realtà, è tutt’altro che pacifista. La sua recente nomina di Merav Ceren a responsabile Iran del Consiglio di Sicurezza nazionale lo dimostra. Proveniente dalla Foundation for Defense of Democracies – think tank vicino agli ambienti neocon – Ceren ha collaborato con il ministero della Difesa israeliano ed è stata una strenua oppositrice dell’accordo nucleare firmato ai tempi di Obama.
Più inquietante ancora l’audio rubato di un vertice dell’AIPAC, pubblicato da Grayzone, nel quale il CEO Elliott Brandt si vantava di avere influenza diretta su tre figure chiave dell’amministrazione Trump: il Segretario di Stato Marco Rubio, Mike Waltz e John Ratcliffe, capo della CIA. Un intreccio che solleva interrogativi sull’effettiva autonomia della politica estera americana.
Tra chi si oppone al conflitto vi è Pete Hegseth, capo del Pentagono, attualmente travolto dallo scandalo “Signal”: durante un summit riservato sullo Yemen, un direttore dell’Atlantic avrebbe registrato e divulgato informazioni coperte da segreto. Stranamente, le richieste di dimissioni si concentrano su Hegseth e non su Waltz, che avrebbe introdotto per errore l’infiltrato. Un altro segno delle lotte intestine che avvelenano l’amministrazione.
Nel caos spunta un segnale rassicurante: Trump ha nominato Elbridge Colby a direttore della sezione politica del Pentagono. Colby, massimo esponente della corrente “realista”, sostiene un approccio duro ma calibrato verso la Cina e una presenza più misurata in Medio Oriente. Già durante il suo primo mandato, consigliò a Trump di evitare una guerra aperta contro l’Iran.
La sua visione si contrappone frontalmente all’aggressivismo neocon, puntando a una stabilizzazione regionale senza avventure imperiali.
Trump tenta così un difficile esercizio di equilibrismo: intavolare una trattativa con Teheran senza alienarsi l’appoggio di Netanyahu, la cui influenza politica rimane pesante. Il prossimo round negoziale si terrà a Roma, sabato.
Ma il dialogo Usa-Iran, pur fondamentale, non basta. La pace dipende anche dall’asse Mosca-Pechino, impegnato a sostenere Teheran come partner strategico. In questi giorni il ministro iraniano Abbas Araqchi ha incontrato Putin a Mosca, firmando accordi anche in campo difensivo, prima di volare a Pechino per rinsaldare il patto di cooperazione strategica.
Mentre la guerra avrebbe conseguenze planetarie, anche la pace, se mai arriverà, sarà il frutto di uno sforzo globale.

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Redazione Redazione Eventi e News