Le cartelle “a sorpresa” dell’Agenzia delle Entrate sul TFR: ecco chi rischia e perché

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Chi ha cambiato lavoro o è andato in pensione potrebbe ricevere cartelle esattoriali dall’Agenzia delle Entrate per TFR erogati anche diversi anni fa: ecco perché succede e come difendersi.
Molti lavoratori che hanno concluso la loro carriera – sia nel settore pubblico che in quello privato – pensavano di aver chiuso definitivamente i conti con il Fisco al momento dell’erogazione del TFR (Trattamento di Fine Rapporto) o del TFS (Trattamento di Fine Servizio). Tuttavia, negli ultimi mesi, diversi contribuenti si sono ritrovati a dover fare i conti con lettere dell’Agenzia delle Entrate che chiedono somme aggiuntive anche per liquidazioni ricevute quattro o cinque anni fa.
Una questione di calcolo (e di tempo)
Alla base di queste richieste non ci sono multe o sanzioni, ma un ricalcolo dell’imposta dovuta. Infatti, la tassazione sul TFR/TFS segue un regime particolare, detto “imposta separata”. Questo meccanismo prevede che, al momento dell’erogazione, l’INPS o il datore di lavoro applichi una trattenuta provvisoria, solitamente del 23%. Solo in un secondo momento, però, l’Agenzia delle Entrate effettua il conteggio definitivo, tenendo conto della media delle aliquote IRPEF sui redditi percepiti nei cinque anni precedenti.
Il problema nasce quando il contribuente, negli anni prima della liquidazione, aveva redditi medio-alti: in questi casi, l’aliquota effettiva può superare quella trattenuta inizialmente, generando una differenza da versare. Una spiacevole sorpresa, spesso scoperta a distanza di anni.
Cartelle esattoriali dell’Agenzia delle Entrate sul TFR: chi rischia di più?
Le richieste di integrazione riguardano principalmente coloro che:
- hanno ricevuto TFR o TFS di importo elevato o con ritardi significativi;
- avevano stipendi alti nei cinque anni precedenti alla fine del rapporto di lavoro;
- hanno percepito incentivi all’esodo, spesso soggetti a conguagli pesanti dopo lungo tempo.
Chi invece ha ricevuto liquidazioni modeste, in genere non subisce ricalcoli rilevanti: sotto la soglia dei 12 euro, infatti, l’Agenzia non procede con l’emissione della cartella.
Cosa controllare (e come difendersi)
I contribuenti che ricevono queste comunicazioni possono – e dovrebbero – verificare che i dati utilizzati per il ricalcolo siano corretti. In particolare, è utile controllare che l’Agenzia abbia considerato con esattezza i redditi percepiti negli anni di riferimento e le ritenute già subite. Sebbene gli errori siano rari, possono comunque capitare.
Un esempio pratico aiuta a comprendere: se su un TFR l’aliquota media risultasse del 26,45% e la trattenuta iniziale fosse stata del 23%, il contribuente dovrebbe restituire il 3,45% dell’importo lordo ricevuto.
Attenzione agli incentivi all’esodo
Una situazione particolarmente delicata riguarda chi ha accettato incentivi all’uscita anticipata, soprattutto in aziende in crisi. Spesso, il netto versato in banca sembra definitivo, ma dopo anni arriva il ricalcolo che può erodere una parte significativa della somma ricevuta. In questi casi, valutare il valore lordo e simulare l’impatto fiscale prima di firmare un accordo può fare la differenza. In fase di trattativa, conoscere questi aspetti consente di negoziare condizioni più vantaggiose.
Cosa succede in caso di debiti fiscali
Se un contribuente non paga la somma richiesta, il Fisco può procedere con il pignoramento del TFR. Tuttavia, la legge impone limiti: di norma non si può superare il 20% della somma dovuta, salvo decisioni diverse del giudice in caso di situazioni economiche difficili.
Esistono comunque strumenti di protezione: ad esempio, destinare il TFR a un fondo pensione rende più difficile il pignoramento, trattandosi di previdenza complementare. Ma anche questa strategia ha le sue eccezioni, soprattutto in caso di debiti verso l’erario.
La cartella è sempre valida?
Quando l’Agenzia delle Entrate riscontra una differenza tra l’imposta provvisoria trattenuta sul TFR/TFS e quella effettivamente dovuta, non può limitarsi a emettere una cartella di pagamento, ma è tenuta – per legge e per giurisprudenza – a comunicare preventivamente al contribuente le irregolarità emerse, mediante un cosiddetto “avviso bonario”.
Si tratta di una comunicazione formale che consente al cittadino di prendere visione del ricalcolo, verificarne l’esattezza e, se necessario, fornire chiarimenti o documentazione integrativa prima che l’importo venga iscritto a ruolo e diventi esecutivo.
A ribadire l’obbligo di questo passaggio è stata la Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado della Lombardia, che con la sentenza n. 111/2025 ha chiarito che il contraddittorio con il contribuente è un principio fondamentale: se manca l’avviso bonario, la cartella esattoriale è da considerarsi nulla.
Questo orientamento rafforza il diritto alla difesa del cittadino e impone all’Amministrazione finanziaria maggiore trasparenza e correttezza nel processo di riscossione.
Richiesta legittima o un modo per fare “cassa”?
Le richieste dell’Agenzia delle Entrate sul TFR possono arrivare a distanza di anni e risultare molto onerose, soprattutto per chi ha avuto redditi elevati o ha ricevuto incentivi all’esodo. È fondamentale controllare i calcoli, valutare con attenzione eventuali errori e sapere che si ha diritto a un confronto preventivo con l’Amministrazione finanziaria. Solo così si può evitare di trasformare una liquidazione attesa per anni in una nuova, pesante, incombenza fiscale.
Va detto che la richiesta dell’Agenzia delle Entrate di un conguaglio sul TFR/TFS è formalmente legittima, ma solleva più di una perplessità sul piano dell’equità e della trasparenza.
Perché è legittima
La legge italiana prevede che il TFR sia tassato con un’imposta separata, calcolata tenendo conto della media delle aliquote IRPEF dei cinque anni precedenti. All’atto della liquidazione, il datore di lavoro (o l’INPS nel caso dei dipendenti pubblici) applica un’aliquota provvisoria. L’Agenzia delle Entrate, in seguito, effettua un calcolo definitivo. Se emerge che si doveva pagare di più, chiede la differenza.
Tutto questo è previsto dal Testo Unico delle Imposte sui Redditi (TUIR) ed è un meccanismo tecnico che, in teoria, serve ad applicare un’imposta più equa, rapportata alla reale capacità contributiva del lavoratore nel periodo considerato.
Perché può sembrare un’ingiustizia (e forse lo è)
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Tempi lunghi e mancanza di informazione: le richieste arrivano spesso dopo 4-5 anni, quando il lavoratore è magari disoccupato o in pensione, e ha perso memoria dei dettagli fiscali o la capacità economica di farvi fronte.
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Effetto sorpresa: molti non sanno nemmeno che l’aliquota applicata alla liquidazione è solo provvisoria. Questo genera frustrazione e senso di inganno: si crede di aver chiuso una fase della vita lavorativa, ma si riapre il cassetto fiscale anni dopo.
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Criterio discutibile: il meccanismo si basa sui redditi di anni precedenti, senza tenere conto della situazione economica attuale. Un disoccupato o un pensionato con redditi minimi può trovarsi a dover pagare somme ingenti calcolate su redditi passati che oggi non esistono più.
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Apparente finalità di cassa: sebbene la normativa sia chiara, l’invio massiccio di queste richieste da parte dell’Agenzia proprio in un periodo di difficoltà per i conti pubblici può far pensare a una strategia per fare cassa, sfruttando un tecnicismo poco conosciuto dai contribuenti.
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