Putin non tratterà finché non vedrà il rischio concreto di perdere la guerra

Sono anni che vediamo Vladimir Putin all’opera, eppure Donald Trump ancora si illude che possa davvero volere la pace. Dalla seconda guerra in Cecenia all’invasione della Georgia, dall’annessione della Crimea all’attacco su larga scala all’Ucraina, il metodo di potere del dittatore è sempre stato la guerra permanente: senza un conflitto aperto, i russi smettono di incollarsi all’immagine di un nemico esterno, iniziano a guardare al Cremlino per chiedere conto di un’economia da paese in declino, e il castello di propaganda si sgretola. L’ultimo degli illusi, o il primo dei presuntuosi, è Trump, che volerà ad Anchorage convinto di poter piegare Putin con la forza della persuasione.
Per il dittatore russo, la guerra non è una crisi da risolvere, ma il cuore stesso del suo potere. È collante politico interno, mito patriottico, dimostrazione di forza verso l’esterno. L’idea, diffusa in molte cancellerie occidentali, che Putin cerchi una via d’uscita onorevole è una fantasia: il Cremlino non considera la fine del conflitto un obiettivo, ma una minaccia. L’unico linguaggio che può convincerlo è quello militare.
E allora perché Putin ha accettato di andare in Alaska? Per un dividendo immediato: il riconoscimento simbolico di essere l’interlocutore diretto di Washington, scavalcando Kyjiv e ridimensionando il fronte europeo. Un tavolo bilaterale senza Zelensky rafforza la narrazione del Cremlino che la guerra sia in realtà uno scontro tra Russia e Stati Uniti, con l’Ucraina ridotta al ruolo di pedina. Per Putin il summit è già una vittoria simbolica, a prescindere dal risultato, perché è passato il messaggio più importante: la Russia è riammessa al rango di grande potenza.
In più, il dittatore russo cercherà di trasformare l’incontro in un’operazione di discredito verso il presidente ucraino Volodymir Zelensky. Presentando proposte inaccettabili — come la cessione del Donbas in cambio di un cessate il fuoco — potrà far apparire l’Ucraina e i suoi alleati europei come gli unici veri ostacoli alla pace. Se riuscisse a minare la pazienza di Trump verso Zelensky, aprirebbe la strada a un calo degli aiuti militari e d’intelligence americani, un colpo potenzialmente fatale per la resistenza ucraina.
Come spiega la giornalista russo-statunitense Maša Gessen sul New York Times, il solo fattore che potrebbe spingere Putin a negoziare davvero è la prospettiva concreta di una sconfitta militare. Finché questo scenario non è sul tavolo, il conflitto può proseguire per anni, anche decenni — proprio come evoca la stessa retorica ufficiale russa, che cita il precedente della guerra di Pietro il Grande durata ventuno anni.
Se Trump non userà questa minaccia, limitandosi solo alle sanzioni commerciali, le richieste russe rimarranno immutate: annessione di territori, fine degli aiuti militari occidentali, esclusione permanente di dell’Ucraina dalla Nato e la rimozione di Zelensky. Kyjiv non può accettare tutto questo senza sancire la sconfitta, e Putin non ha motivo di ridurle.
Purtroppo l’ipotesi più realistica è una tregua temporanea, magari in cambio della rinuncia agli attacchi in profondità sul territorio russo. Ma sarebbe un vantaggio strategico per Mosca, che potrebbe riorganizzarsi e tornare all’offensiva. Kyjiv perderebbe una delle poche leve militari rimaste.
Il paradosso è che l’Occidente dispone già degli strumenti per cambiare il corso della guerra, ma ha scelto di non usarli in modo decisivo, preferendo gestire il conflitto piuttosto che risolverlo. È qui che l’incontro in Alaska rischia di trasformarsi in una semplice scenografia: un’altra casella del gioco dell’oca geopolitico, senza che nulla cambi davvero sul terreno. Finché Putin non teme la sconfitta, la pace resterà un obiettivo di tutti, tranne che suo.
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