Quanti missing migrants, dispersi e mai identificati: perché creare una Banca Dati sui desaparecidos nel Mediterraneo

Lug 28, 2025 - 07:00
 0
Quanti missing migrants, dispersi e mai identificati: perché creare una Banca Dati sui desaparecidos nel Mediterraneo

Io sono cresciuto in una città siciliana, Mazara del Vallo, il cui centro storico continua ad essere chiamato la kasbah, perché il periodo più importante della sua storia sono stati i due secoli di dominazione araba iniziata nel 827. Lavoro in Sicilia come Procuratore della Repubblica da circa 25 anni. Dal 2004 mi occupo, anche, di indagini criminali legate alla immigrazione clandestina sulla rotta del Mediterraneo centrale, che diversi analisti indicano come la rotta migratoria più pericolosa al mondo per numero di morti.

In questi ultimi venti anni ho visto mutare il tipo di imbarcazioni usate dai migranti per la traversata del canale di Sicilia: sono diventate sempre più instabili e pericolose. All’inizio erano imbarcazioni vere, sicure, in grado di affrontare il Canale di Sicilia, che è un mare pericoloso per le sue caratteristiche meteo marine.
Via via le imbarcazioni dei migranti si sono trasformare in bare galleggianti, facili a ribaltarsi anche con mare piatto e in assenza di vento. In questi ultimi venti anni ho visto mutare le rotte: inizialmente gli sbarchi avvenivano sulle coste siciliane, raggiunte agevolmente dai primi smugglers tunisini o egiziani. Via via le rotte si sono concentrate “verso” l’isola di Lampedusa (che dista 118 miglia marine dalle coste siciliane), dico “verso” perché da anni la maggior parte delle imbarcazioni, usate dalle terribili organizzazioni criminali libiche o costruite nell’agglomerato urbano di Sfax (in Tunisia), non sono in grado neanche di raggiungere Lampedusa in sicurezza, stracariche come sono di uomini, donne e bambini.

In questi ultimi venti anni ho visto mutare gli equipaggi: inizialmente le imbarcazioni erano condotte da marinai pagati da chi organizzava il viaggio, spesso tunisini o egiziani (tra i migliori marinai del Mediterraneo e grandi conoscitori di quelle acque). Via via le organizzazioni criminali hanno usato gli stessi migranti che volevano partire, addestrandoli alla navigazione in un paio di giorni soltanto, qualcuno di loro che si offriva volontario (bene che andava), spesso ragazzi sud-sahariani che non avevano mai visto il mare nella loro vita. In questi ultimi venti anni ho visto mutare le condizioni dei migranti a bordo delle imbarcazioni: nel 2010 ho indagato su un’organizzazione criminale egiziana che aveva trasportato 104 cittadini egiziani con una grossa imbarcazione, riuscendo a farli sbarcare in Sicilia, con la collaborazione di diversi cittadini italiani pagati dalla organizzazione. I migranti, una volta toccata terra, di notte, vennero trasportati con dei pulmini in una casa in campagna, dove furono offerti loro: abiti puliti, cibo e un biglietto ferroviario per il nord Italia o per altri Stati europei. In quel caso i migranti pagarono metà del ticket prima della partenza, ad Alessandria d’Egitto, e l’altra metà in Sicilia, dopo essere sbarcati sani e salvi. In questo modo, l’organizzazione criminale si accollava il “rischio” economico della buona riuscita della traversata: se la barca fosse affondata, l’organizzazione criminale avrebbe perso metà del suo guadagno, oltre a perdere l’imbarcazione e l’equipaggio (che rientravano tra i beni aziendali della holding criminale).

Non è più così da diversi anni, tutto è cambiato dopo la fine della prima guerra civile libica, conclusasi sostanzialmente con l’uccisione di Mu’ammar Gheddafi, nell’ottobre 2011. Da allora, hanno preso sempre più piede le terribili milizie libiche, che hanno compreso che l’emigrazione clandestina verso l’Europa poteva essere un immenso business criminale, secondo soltanto al contrabbando di petrolio libico o di petrolio russo. I libici cambiarono le regole del gioco: i trafficanti di esseri umani crearono il grande hub delle partenze a Zuara, nella Libia nordoccidentale. Svilupparono, via via, altre organizzazioni in altre città costiere libiche: Sabratha, Zawiyah, soltanto per citarne alcune. I viaggi in mare (che già di per sé hanno un margine di rischio elevato) diventarono pericolosissimi per i migranti. I trafficanti libici iniziarono usando ex pescherecci di circa 20 metri in pessime condizioni, recuperati in giro per il nord Africa: toglievano tutte le attrezzature da pesca (divenute inutili) e creavano dei nuovi ponti dentro la stiva, spazi dove prima si riponeva il pesce o le reti, venivano riempito di migranti; bucavano gli scafi per permettere alla gente sottocoperta di respirare, ma da quei buchi negli scafi entrava l’acqua, durante la navigazione. Pescherecci creati per navigare con equipaggi di 20 persone venivano caricati oltre ogni immaginazione. In mare erano ingovernabili, affondavano anche con mare piatto, se il carico si spostava da una parte all’altra per un qualsiasi motivo.

A bordo la gente moriva: asfissiata per mancanza d’aria; arrostita viva se aveva la sfortuna di trovarsi troppo vicina alle pareti dei motori diesel; annegata nei pochi centimetri di acqua che si trova sul fondo della nave, se aveva la sfortuna di scivolare ed essere calpestata dagli altri migranti, che al buio, nella stiva, schiacciati gli uni contro gli altri, non si accorgevano di nulla. Da quel momento in poi, il numero dei morti in mare nella rotta del Mediterraneo centrale crebbe fino a farla diventare, appunto, la rotta migratoria più pericolosa al mondo. Quanti sono i morti in mare nel Mediterraneo centrale? In realtà non lo sappiamo. Riusciamo a contare soltanto i cadaveri rinvenuti in mare o sulle spiagge, non i morti. Non è possibile neanche fare una stima dei morti in mare. Vi faccio due esempi: nel maggio 2016 mi sono occupato dell’indagine a carico di 4 trafficanti che stavano trasportando 720 migranti con un peschereccio lungo circa 15 metri, partito da Sabratha in Libia. Il peschereccio, mentre era in navigazione in acque internazionali, a sole 14 miglia dalle coste libiche, viene avvistato da una nave della Marina militare italiana. Le condizioni meteo erano ottimali, i migranti a bordo erano tranquilli, stavano per essere salvati dagli italiani (a quei tempi questo avveniva spesso).

Gradualmente cominciarono a spostarsi da un lato del peschereccio, verso la nave militare italiana, il peschereccio cominciò ad aumentare pericolosamente il suo rollio fino a ribaltarsi, i migranti si trovarono improvvisamente in acqua. Si salvarono tutti i migranti che stavano in coperta, sul ponte superiore aperto, tranne 5, i loro cadaveri vennero recuperati dai marinai italiani insieme ai superstiti. Il peschereccio ci metterà 40 minuti ad affondare capovolto, un’eternità. I nostri militari furono eroici, salvarono più di 400 naufraghi strappandoli dalle acque, buttando in mare tutto ciò che avevano che riusciva a galleggiare. Soltanto ore dopo scoprimmo che c’erano 283 migranti (tutti di pelle nera) dentro la stiva, stipati nei ponti inferiori costruiti abusivamente. Sappiamo il numero esatto grazie al racconto di un migrante siriano che era seduto a poppa del peschereccio, mentre i trafficanti libici contavano i migranti che caricavano a bordo: “dobbiamo imbarcare altra marce”, dicevano i libici, merce non persone. I 283 in stiva morirono tutti, annegati dentro il peschereccio, i loro corpi sono ancora da qualche parte nel Mediterraneo a centinaia di metri di profondità. Per le statistiche quel naufragio ha causato soltanto 5 morti, che corrispondono ai 5 cadaveri recuperati. I 283 morti in stiva non hanno lasciato traccia in alcuna statistica, ancora oggi.

Un secondo esempio: negli anni successivi i libici hanno cominciato a usare i rubber-boat di circa 10 metri, acquistati in Cina, inizialmente anche su Alibaba, la più grande piattaforma di vendite on line al mondo. Costavano poco per i trafficanti libici e potevano essere stipati con quasi 200 migranti a bordo. I gommoni cinesi acquistati dai trafficanti erano pericolosissimi, le saldature delle loro camere d’aria di gomma erano pessime, cedevano in navigazione sotto il peso dei migranti e la gente annegava. Quanti gommoni semi affondati ho visto in questi anni in mezzo al mare, senza naufraghi intorno, gommoni che non sono mai diventati target di operazioni di search and rescue? Quanti ne hanno visti le navi della Guardia Costiera o delle Marine Militari degli Stati Europei? Quanti ne hanno visto le ong che navigano nel Mediterraneo? Non lo sappiamo, perché non vengono mai contati. Ognuno di loro (fino a che continua a galleggiare, per ore o per giorni) è una lapide, il segno che lì sotto sono annegate 200 persone, 170, 150, nessuno lo sa perché nessuno le ha mai contate. Non ci sono cadaveri, ma ci sono i morti.

I missing migrants di cui possiamo occuparci sono soltanto i cadaveri che rinveniamo in mare, sulle spiagge o sugli scogli. Sono soltanto una minima parte dei morti del Mediterraneo. Questo vuol dire che ci sono nel mondo migliaia di famiglie che piangono o cercano i loro cari scomparsi, di cui noi, che stiamo seduti sulla parte europea del Mediterraneo, non abbiamo alcuna traccia, alcuna notizia. Riguardo ai cadaveri dei migranti rinvenuti, pochi vengono identificati: chi ha dei documenti addosso (io in venti anni ne ho visti pochissimi), o chi ha dei familiari o dei conoscenti che sono sopravvissuti al loro stesso naufragio e può riconoscerli. Gli altri cadaveri rimangono per la maggior parte sconosciuti. In Italia non vi è l’obbligo di identificare i cadaveri nel corso delle indagini penali, lo si fa soltanto se è possibile. Perché un omicidio rimane un omicidio, anche se nel processo non si scopre il nome della vittima: il colpevole viene condannato lo stesso.

Cosa è possibile fare dei cadaveri dei missing migrants:

Foto dei segni distintivi: del volto, dei tatuaggi, dei gioielli. Non sempre è possibile: il mare e i pesci sono spietati, rendono presto i cadaveri irriconoscibili, anche soltanto dopo pochi giorni in acqua. A volte, non si riesce a capire neanche il sesso del cadavere (cioè, se erano maschi o femmine) o il colore originario della pelle, cioè se erano neri o caucasici. Il prelievo del Dna: ha un costo; porta alla mutilazione del corpo (a volte bisogna prelevarlo dalle ossa per avere dei campioni utili); soprattutto necessita dei campioni biologici di confronto (di familiari prossimi) per l’identificazione. A Lampedusa noi riveniamo cadaveri quasi quotidianamente, cadaveri che spesso è impossibile collegare a un singolo evento, a un singolo naufragio, o anche soltanto a una data della morte. A Lampedusa il piccolo cimitero dell’isola non ha celle frigorifere per conservare i corpi, non ha una camera mortuaria dove fare le autopsie, non ha un “tavolo autoptico”, dove esaminare o tagliare i corpi. Quindi, i nostri protocolli investigativi prevedono che vengano prese sempre dalla Polizia Scientifica le foto del cadavere e dei suoi segni distintivi.

Il prelievo del Dna, invece, lo facciamo quando vi è la probabilità che qualcuno si faccia avanti, offrendoci dei campioni biologici di confronto. Negli altri casi no.
Io personalmente l’ho disposto in pochissime occasioni. Soltanto in una occasione abbiamo restituito due cadaveri ai loro cari. È avvenuto nell’indagine a seguito del naufragio di un piccolo peschereccio partito da Sfax, in Tunisia, i primi di ottobre del 2019, naufragato a 3 miglia da Lampedusa. Morirono 25 migranti, tra cui 13 giovanissime ragazze sud-sahariane, 22 migranti furono salvati dai militari italiani. In quell’occasione, con un’operazione complessa e rischiosissima della Guardia Costiera italiana, riuscimmo a rinvenire il peschereccio affondato a 50 metri di profondità, dopo diversi giorni di ricerche con una nave attrezzata. Il peschereccio nella discesa verso il fondo del mare si era spostato di 300 metri dal punto del naufragio. Restituimmo i corpi di due giovanissimi migranti tunisini alle loro mamme: Rabih e Mohamed. Le loro mamme li avevano riconosciuti dagli abiti, guardando le immagini subacquee riprese da un robot Rov della Guardia Costiera italiana, immagini che avevano fatto il giro delle Tv di tutto il Mondo. In quella occasione, le mamme inviarono il loro Dna tramite le loro autorità diplomatiche tunisine, il Dna che era stato prelevato e analizzato in Tunisia dalla polizia tunisina. Ad altre due mamme, invece, non restituimmo alcun corpo: anche loro avevano visto i loro figli tra i morti di quel naufragio. I loro corpi erano stati inquadrati dalle telecamere del Rov vicino al relitto, ma il mare li avevi portati via prima che i sommozzatori della Guardia Costiera riuscissero a prenderli.

È necessario creare una banca dati dei cadaveri dei migranti recuperati, alimentata con foto e Dna. Chi deve alimentare la banca dati? Chi la deve gestire?
Le foto possono essere alimentate dalla Polizia Scientifica, senza particolari problemi tecnici. Il Dna dai cadaveri chi lo preleva? Chi processa il Dna? Chi lo inserisce in banca dati? Le indagini penali servono a ricostruire fatti per trovare il colpevole di un crimine, ad avviare un processo penale e a giungere a una condanna, se si ritiene che il soggetto processato abbia commesso un crimine. Il focus delle indagini penali, quindi, è tutto centrato sul presunto autore del delitto. Secondo me, se la banca dati viene alimentata soltanto dai risultati delle indagini penali, rischiamo di avere pochi, anzi pochissimi profili di Dna di cadaveri di migranti. Perché il lavoro del Pubblico Ministero, il mio lavoro, è un altro: io debbo trovare il colpevole; debbo giustificare i soldi che spendo per le indagini, che debbo usare per trovare il colpevole; ho dei limiti di tempo per fare le mie indagini. Tutto a garanzia dei diritti dell’indagato.

Quindi, a mio giudizio, la Banca dati dovrebbe essere gestita e alimentata da una Agenzia, necessariamente pubblica, magari un’unica Agenzia Europea, che dovrebbe avere questo unico scopo. Una Agenzia che certamente avrebbe contatti stretti con la Polizia Giudiziaria o con le Autorità giudiziarie europee. Una Agenzia che dovrebbe essere attrezzata anche per dialogare, in maniera empatica, con chi cerca i cadaveri: con le Autorità diplomatiche extra europee; con le ong che lavorano in Africa, in Medio Oriente, in Asia; ma, soprattutto, con le famiglie dei migranti dispersi.

*Procuratore capo del Tribunale di Gela, questo è il testo del suo intervento al Consiglio d’Europa per proporre una Banca dati europea sui morti in mare

Qual è la tua reazione?

Mi piace Mi piace 0
Antipatico Antipatico 0
Lo amo Lo amo 0
Comico Comico 0
Furioso Furioso 0
Triste Triste 0
Wow Wow 0
Redazione Eventi e News Redazione Eventi e News in Italia