Ucraina. Trump: cambio di postura o strategia tattica?

Lug 18, 2025 - 23:30
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Ucraina. Trump: cambio di postura o strategia tattica?

di Riccardo Renzi

L’amministrazione Trump, nel suo secondo mandato, sembra aver intrapreso un cambio di postura nei confronti della guerra in Ucraina e dei rapporti con la Russia. Un cambio tutt’altro che lineare, oscillante tra esigenze elettorali, pressioni del Congresso, interessi strategici americani e frustrazioni personali nei confronti di Vladimir Putin. L’articolo analizza le dinamiche geopolitiche alla base di queste scelte, il ruolo dell’Europa e dei think tank conservatori americani, le implicazioni della diplomazia parallela e i segnali di una possibile rimodulazione del contenimento russo, in un contesto in cui la guerra per procura in Ucraina non sembra più centrale per gli interessi globali degli Stati Uniti.
Il secondo mandato di Donald Trump alla Casa Bianca ha riportato alla ribalta il dibattito sulla postura americana in Ucraina e, più in generale, sulle relazioni con la Russia. Se nei primi mesi sembrava profilarsi un disimpegno quasi totale dagli affari ucraini , in linea con le aspettative della base elettorale MAGA, le ultime settimane raccontano una narrazione diversa, fatta di pressioni diplomatiche, invio di armi e minacce commerciali alla Russia. Si tratta davvero di un cambio di postura? Oppure siamo davanti a una strategia tattica per guadagnare tempo e ricalibrare gli strumenti della pressione americana?
La Russia continua a essere considerata una minaccia all’egemonia americana. Lo dimostrano documenti ufficiali e non, a partire dai report della Heritage Foundation, dell’America First Policy Institute e della RAND Corporation, fino agli indirizzi strategici del Pentagono. In tutti emerge un obiettivo chiaro: contenere la Federazione Russa attraverso una molteplicità di strumenti, militari, economici, diplomatici, pur evitando un’escalation diretta.
Tuttavia la guerra in Ucraina non è più percepita come lo strumento più efficace per questo contenimento. L’idea che si fa largo anche in ambienti neoconservatori è che l’Ucraina sia divenuta un asset geopolitico troppo costoso e poco utile rispetto ad altri scenari prioritari per gli Stati Uniti, come il Medio Oriente o il Pacifico.
Donald Trump si muove in un delicato equilibrio: da un lato, la sua base lo spinge al disimpegno dai teatri di guerra, in nome di un rinnovato isolazionismo; dall’altro, deve mantenere un fragile consenso tra le anime del Partito Repubblicano, dove i neoconservatori continuano ad avere influenza nel Congresso.
È in questo contesto che vanno lette le mosse recenti dell’amministrazione. La minaccia di dazi indiretti alla Russia e ai suoi partner commerciali, come India e Cina, così come l’invio di nuove batterie di difesa aerea Patriot all’Ucraina (tramite triangolazioni con Germania e Norvegia), sembrano misure pensate più per non scontentare nessuno che per determinare un vero cambio di strategia.
Un elemento che ha alimentato dubbi e speculazioni è il presunto dialogo ancora in corso tra Trump e Putin. Secondo alcune fonti, i due leader avrebbero scambiato messaggi riservati e mantenuto contatti indiretti attraverso delegazioni diplomatiche su diversi dossier, incluso quello iraniano.
Una coincidenza ha attirato l’attenzione degli osservatori: quando Putin avrebbe informato Trump di un’intensificazione del conflitto entro 60 giorni, quest’ultimo ha risposto con un ultimatum di 50 giorni per arrivare al tavolo della pace. Un gesto che, più che minaccia, sembra una manovra per guadagnare tempo e mantenere aperti i canali di comunicazione.
La cosiddetta “coalizione dei Patriot”, un consorzio informale tra paesi europei per il trasferimento di sistemi di difesa aerea a Kiev, è emersa come risposta alle carenze ucraine, ma anche come strumento per evitare che gli Stati Uniti debbano sacrificare la propria riserva strategica.
L’invio di 17 batterie da parte americana ha destato perplessità, soprattutto in relazione agli altri teatri di crisi globale. Dietro le quinte, Washington chiede agli europei di sostenere lo sforzo bellico ucraino, consapevole che le priorità militari statunitensi si stanno spostando verso l’Indo-Pacifico.
Trump, intanto, ha riavvicinato alcuni leader europei, in particolare il cancelliere tedesco Friedrich Merz, con cui condivide una certa affinità personale. Merz è stato fondamentale nel convincere il presidente americano a rivedere, almeno parzialmente, la propria posizione su Kiev.
Di fronte all’incertezza del supporto americano, Zelensky ha avviato un rimpasto significativo del governo: la giovane Yulia Svyrydenko, già ministro dell’Economia, è ora primo ministro, mentre l’ex premier Shmyhal è passato alla Difesa. La nuova leadership ha varato un bilancio aggiuntivo da 10 miliardi di dollari per rafforzare la produzione militare nazionale, segnale che l’Ucraina sta iniziando a prepararsi a una guerra di lungo periodo senza contare troppo sull’aiuto occidentale.
Un altro segnale da non sottovalutare riguarda il congelamento da parte di BlackRock, JP Morgan e altri colossi finanziari del loro impegno nel fondo per la ricostruzione dell’Ucraina. Una scelta che potrebbe derivare da un aumento dei rischi percepiti o, più probabilmente, dalla convinzione che un piano post-bellico non sia ancora all’orizzonte.
Questa mossa è stata interpretata da molti analisti come un primo segnale concreto del possibile disimpegno americano, o quantomeno della sua ridefinizione, in un’ottica di costi-benefici.
La presidenza Trump si trova a un bivio: continuare a sostenere l’Ucraina, ma in modo condizionato e selettivo, oppure cercare una nuova intesa con la Russia per spostare l’attenzione su dossier più urgenti come Iran, Taiwan e il Mar Cinese Meridionale.
Il contenimento della Russia resta una priorità per Washington, ma gli strumenti stanno cambiando. L’idea di una guerra per procura in Ucraina come fulcro della strategia americana è in declino. Al suo posto emerge una postura più ambigua, fatta di minacce economiche, pressioni diplomatiche e compromessi transatlantici.
Trump, deluso da Putin ma ancora attratto dalla possibilità di un accordo personale, si muove su un terreno instabile. La sua capacità di manovra sarà messa alla prova nei prossimi mesi, quando scadranno i famosi 50 giorni. Ma in geopolitica, si sa, ogni ultimatum può essere un invito al negoziato mascherato.
La Russia resta un antagonista degli Stati Uniti, ma forse per Trump anche un interlocutore necessario.

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