Da Ellis Island a Trump: il pendolo dell’immigrazione americana


Visitare Ellis Island non è soltanto un viaggio nella storia: è come aprire un libro scritto con milioni di nomi, storie, speranze e paure. Nel grande atrio dell’ex centro di accoglienza, dove tra fine ’800 e inizio ’900 passavano fino a 5.000 persone al giorno, si respira ancora l’odore di una frontiera che non era fatta di muri, ma di medici, funzionari e domande rapide: “Sai leggere? Hai parenti qui? Sei in buona salute?”. Bastava un sì o un no per decidere un destino.
Per capire davvero l’immigrazione negli Stati Uniti, bisogna immaginare il Paese come una società di frontiera mobile. Quando, alla fine dell’Ottocento, la frontiera geografica si esaurisce, la frontiera si sposta altrove: diventa legale, economica, culturale e politica. È qui che inizia il grande pendolo della storia americana: momenti di apertura per bisogno di manodopera, seguiti da fasi di chiusura dettate da crisi economiche o ansie identitarie.
Le forze che muovono questa frontiera sono quattro. La prima è il lavoro: quando servono braccia (o cervelli), la porta si apre; quando c’è disoccupazione interna, si richiude. La seconda è la legge, che stabilisce chi è “ammissibile” e con quali diritti: nel 1924 arrivano le quote che penalizzano gli immigrati dell’Europa meridionale e orientale, nel 1965 si riapre con criteri familiari e professionali, negli anni ’90 e 2000 prevale la logica della sicurezza. La terza forza è l’identità: chi è considerato “noi” cambia nel tempo. Irlandesi, italiani, ebrei furono a lungo “altri” prima di essere assorbiti; oggi il confine simbolico si sposta su latinos, musulmani e immigrati irregolari. La quarta forza è chi costruisce la narrazione: politici, media, movimenti e influencer che trasformano la complessità in storie semplici, di opportunità o di minaccia.
Ecco perché la storia dell’immigrazione americana assomiglia a un pendolo: apertura per necessità economica → ansia identitaria → restrizione legislativa → nuova sintesi. Ellis Island appartiene alla fase di espansione industriale; le quote del 1924 al backlash nativista; il 1965 alla riapertura pluralista; Trump a un nuovo backlash identitario-securitario, amplificato dai social e dalla polarizzazione politica.
C’è un aspetto però che spesso resta fuori dalle discussioni, ed è quello di chi paga e chi incassa. Nel breve periodo, i benefici vanno soprattutto a imprese e consumatori: più lavoratori significa più produzione e prezzi più bassi. I costi immediati invece sono territoriali: scuole, sanità, alloggi, integrazione, e ricadono sulle comunità locali che accolgono. Ma nel lungo periodo i conti cambiano: i figli e i nipoti degli immigrati portano benefici fiscali, innovazione, nuova domanda interna, rafforzamento del tessuto produttivo e culturale. È un investimento intergenerazionale, non una partita che si chiude in un bilancio annuale. Questo la politica tende a ignorarlo.
Eppure, nel presente, la percezione di chi vive qui è sfaccettata. In un ristorante di Midtown, un italiano quarantenne del Sud, in America da tredici anni e oggi manager di due locali, mi spiega che per lui Trump ha ragione almeno su un punto: espellere le persone pericolose. “Gli Stati Uniti non possono permettersi altra immigrazione in questa fase”, dice, convinto che il Paese debba proteggere prima la sicurezza interna.
Pochi isolati più in là, un altro italiano, poco sotto i trent’anni, anche lui dal profondo Sud ma arrivato via Londra con un visto per persone creative, racconta di aver fondato qui una piccola azienda di design grafico dopo aver studiato allo IED di Milano. Non ha votato Trump: non accetta le discriminazioni legate all’orientamento di genere, e crede che la forza americana stia proprio nella sua diversità.
Infine, in un ristorante cinese, una donna di sessant’anni mi confida che ormai i cinesi non vengono più negli Stati Uniti per “fare i soldi”: la Cina offre più opportunità. Lei però non vuole tornare, perché qui vive con la madre anziana, che non vuole rientrare in patria.
Trump non ha inventato la chiusura: la porta si era già trasformata in porta + filtro + freno dopo le riforme degli anni ’90 e l’11 settembre. La sua novità è stata quella di trasformare il confine in un teatro di sovranità, con misure visibili (muri, restrizioni all’asilo) e messaggi calibrati per i media, spostando il discorso pubblico dalla domanda di lavoro (chi assume e perché) alla colpevolizzazione dell’offerta (chi arriva e come fermarlo). Ma le forze profonde restano le stesse: invecchiamento della popolazione, bisogno di lavoratori in agricoltura, edilizia e servizi, crisi climatiche e instabilità nei Paesi d’origine.
Camminando oggi tra le stanze di Ellis Island, si capisce che i volti cambiano, le lingue cambiano, ma le domande restano le stesse: chi entra, per fare che cosa, a quali condizioni, e come diventa parte del “noi”.
Lo vedo negli occhi chi, in famiglia, davanti a un terminale della sala ricerche trova le tracce di due viaggi diversi ma entrambi segnati da questo luogo. Uno è il papà della mamma di sua mamma, partito dalla Slovenia: arrivò, non tornò mai, lasciando in Europa il resto della famiglia. L’altro è il papà della mamma di suo papà, partito dalla Lombardia: fece fortuna, mise al mondo tre figlie negli Stati Uniti e poi tornò in Italia. Due destini opposti, entrambi scolpiti nella mappa delle migrazioni.
Quelle storie lontane si intrecciano con la mia. Mio padre era figlio di una famiglia emigrata dalla bergamasca in Eritrea nel 1936 e rientrata in Italia negli anni ’50; mia madre invece proveniva da una famiglia sempre rimasta in Italia. Anch’io, negli anni ’90, ho attraversato l’oceano per vivere negli Stati Uniti, diventando residente. Qui è nata una mia figlia. Poi siamo tornati.
Forse è per questo che qui, tra queste mura, sento la storia come un respiro che va e viene: partenze e ritorni, addii e ricongiungimenti, scelte definitive e ripensamenti. Un pendolo che non smette mai di oscillare, spinto dalle stesse forze di sempre: lavoro, legge, identità e narrazione, e che, in ogni epoca, ridisegna il confine tra “noi” e “gli altri”.
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