Igor | Indie Tales

I
EXACTLY WHAT YOU RUN FROM YOU END UP CHASING
Igor non riuscì a calmarsi nemmeno fuori dal club. Le gambe lo mossero in direzione del bangladino fluorescente che illuminava il marciapiedi dal lato opposto al parcheggio. La trovò davanti al frigo delle Red Bull: una madonna elettrica coronata di lucine blu, rosse e verdi. Bianca. Le sue caviglie lampeggiavano illuminando a giorno il minimarket; i riflessi plastici delle lattine, dei pacchetti di patatine a un euro, e tutte quelle cose che si schiantano sugli occhi della gente per il privilegio di esistere, sparivano senza speranza.
Igor si inchinò sull’asfalto: le ginocchia trafitte, la bocca dischiusa, il ciuffo sudato a coprirgli la vista come per una forma olistica di carità. Lei chiuse la porta del frigo grigio topo, poi mise una mano sul cuore, l’altra su un tubo di Pringles e, fissandolo, ne rimosse il tappo, poi la pellicola trasparente. Si posò una patatina sulla lingua e lasciò che la saliva si mescolasse col sale. Mentre lei gli veniva incontro, Igor aprì la bocca in attesa del Corpo di Cristo. La patatina gli colpì l’occhio e la pappa umida che ne colava si sfracellò sul marciapiedi.
«È colpa mia», disse lui.
«Vieni», disse lei.
Bianca fumava appoggiata alla parete. L’odore d’erba si mescolava alla fragranza del popcorn mezzo scoppiato nella pentola.
plup.
Lei ogni tanto si ricacciava i globi di fumo nelle narici bulimiche.
plup. plup.
Un episodio di Siamo Fatti Così messo a caso da Netflix.
plup.
Le sue labbra sottili, senza forma, quasi ritratte sulla punta degli incisivi.
«Non vieni?», chiese lui dal divano.
«Vuoi mangiarlo il pop corn o no?», chiese lei da un altro universo.
«No».
plup.
«Mi spieghi perché sei qui?»
plup. plap. plap.
«Tu perché mi hai invitato?»
«Per l’unico motivo per cui si fa ogni altra cosa».
«Quale?»
plap.
«Nostalgia».
Sentì che l’intero suo corpo lo tradiva. Si tratteneva all’ingresso, cercava qualcosa che poteva aver dimenticato, toccava le gambe con le mani, stringeva le tasche, si controllava i capelli allo specchio. I faretti tagliavano il suo corpo disegnando le linee della fronte e della mandibola, cuocendogli addosso la camicia, rendendola rigida come un’armatura di cartone. Maledì la definizione delle sue spalle, la sua pelle glabra, così gradevole, tanto stridente con il panico degli omini barbuti nel suo cervello. La voce di Bianca rimbalzò attraverso la tromba delle scale.
«Allora vieni?»
Lo aspettava già un piano più in basso.
«Chiudi bene la porta».
La mano di Igor si fece lieve per rendere lo scatto della serratura il più delicato possibile. La luce delle scale si spense.
«Premi di nuovo l’interruttore».
Igor obbedì. Discese i gradini inseguendo il passo sonoro di lei. Ebbe solo il tempo di vederla davanti al portone, poggiata alla cassetta della posta, con gli occhi grandi, tutti ciglia, fissi su di lui. Poi svanì insieme alle pareti. Non riaccese le luci: il sottoscala divenne un caleidoscopio di vetri e vortici provenienti dalla strada. Igor raggiunse la sua sagoma nel buio, colse il suo fianco e provò a baciarla. Trovò la fossetta tra guancia e labbra mentre la sua piccola pancia gli premeva sull’addome. La faccia gli andò a fuoco. Le morse la pelle. Lei lo accompagnò nell’offerta che ufficiava in silenzio: non gli dette in cambio nient’altro che fede.
II
SOMETIMES YOU GOTTA CLOSE A DOOR TO OPEN A WINDOW
Il castello di Roman non aveva soffitti, solo vecchie mura e scale e luci a led sottilissime di un giallo affilato, doloroso. Bianca si muoveva su due centimetri d’aria, volava da un’installazione all’altra, ingollava con gli occhi quell’orgasmico disordine.
«Queste sono di Filippo?»
«Le abbiamo dovute portare via a forza da uno spazio che le voleva per altre due settimane», disse Roman.
Igor sedeva su uno sgabello in legno costruito con scarti di travi e altre cose da buttare. Bianca lo guardò e rise (che cazzo si rideva?).
«Come fate se piove?»
Roman partì a spiegare che la pioggia non arrivava alle installazioni per via dell’architettura a volte nubiane importata dall’Egitto e bla bla bla: a Igor la voce dello stangone albino urticava la coscienza grattando via la buona volontà che si era appiccicato addosso. Lui lo sfiniva, ma era lei a ucciderlo con il suo entusiasmo, le sue scapole aperte, la sua voce pulita.
«Dobbiamo spostare ancora un sacco di roba al piano di sopra», disse Roman.
«Se possiamo aiutare lo facciamo volentieri», disse Bianca.
Roman osservò la quiete bovina di Igor.
«In effetti i muscoli del tuo ragazzo potrebbero farmi comodo».
Bianca rise (ancora: che cazzo si rideva?).
Igor mise gli occhi sulla pietra del pavimento, una carta vetrata che avrebbe fatto a pezzi i suoi mocassini. Ci fu silenzio per un po’, un silenzio nutriente anche se insipido. Si convinse a muovere lo sguardo su Bianca che gli dava la schiena; respirò telepaticamente i suoi capelli color del cuoio bruciato. Le sue braccia nuotavano nelle spalline di pizzo della camicetta mentre le sue dita toccavano senza motivo dei grossi spilli conficcati su una tela bianca e ingarbugliati tra loro da un lunghissimo filo di lana rossa.
Roman entrò a prendere delle birre e Bianca fece per seguirlo. Dopo qualche passo si fermò, aspettò che quello fosse lontano e fissò Igor.
«Sei odioso».
«Ti amo».
Un cartellone rosa lumeggiava la passerella sulla spiaggia contrastato da una fitta tela di lampadine a bassa intensità che indicavano un percorso diafano nel cielo senza stelle. “TIME” diceva il cartellone. Da lì il frullio delle onde del mare contro gli scogli superava ancora la canzonetta pop-house esalante dalla festa. La cacofonia fu esasperata da un gruppo di gabbiani che, subito dopo uno schianto urlante sulla spiaggia, si esibì in una rissa violentissima. Si contendevano un qualche ratto di fogna, così spelacchiato che le sue parti volavano indistinguibili da un becco all’altro. Igor si perse per qualche istante nel moto d’ali e sabbia, ravvivato ogni tanto da un bagliore d’occhi contro i lampioni del lungomare.
Bianca camminava in testa alla fila seguita da Carmine, Roman, la loro amica lesbica e un tipo bassissimo di nome Castol che avevano recuperato all’ingresso. Igor camminava strano, sempre impacciato dalla sua forma. Aveva cambiato occhiali da sole e aveva messo una canotta bianca con sopra una giacca petrolio, dei pantaloni a palazzo dello stesso colore e scarpe da tennis bianche. Perdeva terreno dietro al gruppo, ma di andare più veloce non aveva intenzione. C’era qualcosa nel suo vestiario su misura che lo inibiva. C’era poi la leggerezza degli altri, la bruttezza di tutto ciò che vedeva intorno a lui, la gioia che illuminava i volti di quei poveracci pseudo artisti che tanto piacevano a lei. Lei, sempre lei era il problema, quello che pensava lei, quello che voleva lei, tutte quelle cose che voleva e che non erano lui; sempre a inseguirla, come ora sulla piattaforma di quello stronzissimo lido di Trapani. “OUT OF” c’era scritto su un altro cartello in fondo alla passerella.
«Non bevi, Igor?»
«Se mi parli ancora giuro che ti ammazzo».
La faccia di Castol diventò color crema come la sua camicia di H&M.
«Ma che gli prende al tuo ragazzo?». Ancora con questo al tuo ragazzo, ci farebbe comodo il tuo ragazzo, detto ancora con quella vocetta insulsa come fosse una cosa spiritosa.
Bianca lo spinse fino a un angolo bagnato della piattaforma, vicinissimo agli sputi del mare frangente gli scogli.
«Ora la finisci di fare il coglione».
«Non posso scherzare coi miei nuovi amici?»
«Non fai ridere nessuno».
«Li fa ridere che sono il tuo ragazzo».
Bianca affondò le mani nei capelli, i suoi capelli dal profumo impossibile lambiti dalle lingue di spuma che risalivano l’aria salina.
«Senti, poi ne parliamo. Adesso se riesci a comportarti in modo decente mi fai un favore».
«Andiamocene, facciamoci un giro, andiamo in hotel, a casa», quasi supplicava, «andiamo dappertutto, ma andiamo via da ‘sta gente».
Bianca si infilò tutta nel gorgo nero dell’orizzonte.
«Ascolta Igor, ho promesso a Roman che saremmo stati da lui stanotte. Tu fai come ti pare, io non ho voglia di fare figure di merda».
Tornarono verso il gruppo con il sorriso sforzato di Bianca come stendardo.
«Tutto apposto piccioncini?», chiese Roman.
Igor gli tirò un cazzotto in bocca.
III
I HATE WASTED POTENTIAL, THAT SHIT CRUSHES YOUR SPIRIT
Verso le quattro di mattina, Igor aprì gli occhi. Non aveva, come al solito, il naso occluso dalla rinite nervosa; si era svegliato ed era davvero sveglio, non nel solito passaggio tra un incubo e l’altro. Era davvero sveglio e sentì accanto a lui, alle sue spalle, che anche Bianca era sveglia, anche lei davvero sveglia. Torse il bacino portandosi dietro a fatica il braccio atrofizzato dal peso del suo corpo. La schiena nuda sul coprimaterasso si accaldò e anche le cosce e le pieghe sotto le ginocchia. Le ascelle liberarono un afrore fortemente cromatico tra il post-it di Avavav e il pastello giallo da cerimonia di Zimmermann.
Igor cercò la spalla di Bianca. La respirò, vi strofinò sopra il dorso del naso, cercò di farla entrare nelle sue narici; riusciva sempre a immaginarla nuda, eppure quella mattina era come non l’avesse mai vista. Si era svegliato nuovo, desideroso di spogliarla per la prima volta.
Le mise una mano sullo stomaco; lo copriva completamente, lo inglobava, gli sembrò di poterla tenere tutta tra mignolo e pollice. Le si avvicinò premendole il fianco con l’addome, sentendo la sua erezione fiorire e sbocciare al contatto con il cotone del suo pigiama. Le cinse i piccoli seni con l’avambraccio e affondò il viso nell’odore dei suoi capelli. Bianca non respirava, disse soltanto:
«Smettila».
«Perché?»
«Sto cercando di dormire. Mi dai fastidio».
Lui ormai era solo naso, esisteva solo nei suoi capelli.
«Faccio io, tu non devi fare niente», disse.
Lei si staccò, allontanandosi di qualche centimetro, si fece rigida, le costole come di lamiera sotto le sue dita. Igor tornò a stendersi sulla schiena, il suo corpo divenne una brace, gli occhi si riempirono di cenere e le palpebre non gli riuscirono più di chiudersi.
L’esterno del bar di via Verona era quasi vuoto. I tavoli brillavano del riflesso sporco di bicchieri e posacenere.
«Che cazzo te lo sei portato a fare?»
Bianca e Filippo erano seduti, un croissant piluccato riverso su un piattino davanti a lei, una lattina di Estathè al limone tra le dita di lui. Igor stava in piedi a un metro dall’unica sedia vuota. Guardava solo lei, Filippo era una sagoma di celluloide, una foto molto realistica che lei si era portata dietro.
«Ti siedi?»
Igor avvertì i muscoli tremare dalle spalle ai polsi. Si sedette.
«Mi inviti a colazione e ti presenti col tuo ex», disse tutto faccia. «Che problemi hai?»
«Non posso parlarti di questa cosa senza che ci sia lui».
Filippo giocava con la condensa alla base della lattina spalmandola sulla superficie del tavolo.
«Lo so che è difficile per te, ma faresti meglio ad ascoltare», disse uscendo dal suo mutismo infantile.
Igor si voltò lentamente, i muscoli delle spalle tesi, pronti a esplodere.
«Se resto tu rischi la faccia, vero Filì? La tua bella faccia».
«Igor, finiscila».
«Dico solo che sarebbe un peccato», sorrise lui non togliendo mai gli occhi da Filippo, «è carino, no?»
Anche Filippo sorrideva, ma si guardava intorno e le sue dita erano tornate sulla lattina.
«Dovrei lasciarti e basta», mormorò Bianca.
«Dato come mi tratti pensavo fossimo già oltre questo punto».
Bianca finalmente espirò e una strana smorfia le calcificò il viso.
«Che significa?»
«Non basta, vero?»
«Cosa?»
«Che ti amo».
Igor stava per prendere fuoco.
«Ti amo anch’io», abbassò gli occhi sulle molliche spappolate, «ma dobbiamo aprire la coppia».
Anziché esplodere, il nucleo di magma che aveva riscaldato Igor collassò riducendolo a un guscio di terra cruda. Era sicuro di potersi bucare il petto solo premendolo con le dita.
«Filippo sarebbe d’accordo se tu… Che fai?»
A Igor alzandosi sembrò di lasciare sulla sedia pezzi di pelle.
Hangar. Bassi frenetici rimbalzavano su quattro colonne puntinate di piccoli cazzi e vagine fluo. Il resto dello spazio era occupato da tre cose: fumo, sudore e carne. La gravità si annullava, i corpi fluttuavano per tempi dilatati, gli arti si liberavano dai tronchi, i polsi e le mani si dislocavano modellando bellezze proprie, slegate dall’umano.
Dietro canotte, braccia, piercing, dietro cazzi e vagine, Igor guardava Stef fare il pazzo per guadagnarsi i suoi metri di pista. Chi lo notava gli lasciava spazio. Era divertente. Didi e Rosa si scaldavano con Igor che ancora non aveva perso la percezione visiva.
«NOI ANDIAMO AL BAR», urlò Rosa.
Igor sorrise facendo di no con la testa. Il tempo scorse a velocità doppia, poi rallentò e poi si affannò: un buco nero lo succhiava insieme a tutti quei corpi, alle strobo, alla musica impazzita. Un ragazzone altissimo gli corrodeva lo spazio visivo. I loro sguardi si torsero l’uno nell’altro e Igor si sentì distorto dalla sua forza gravitazionale. Non poté fare nulla. Ballò con lui e gli parve di sparire. Finalmente. La gioia prese a sciogliere i suoi muscoli man mano che il ragazzone lo sfiorava e poi devotamente lo prendeva e se lo provava addosso. Igor si sentì un tessuto pregiato su di lui; le mani scivolavano come cashmere sul suo corpo, il basso ventre era morbido chiffon, labbra di mussola cadevano alla perfezione sulle sue e giù lungo il collo. S’indossavano così bene il ragazzone e Igor, l’uomo e l’abito.
Gli occhiali fecero una panna fitta che aumentò la sua euforia. Al magnetismo del buco nero fuggì solo una barretta verde; al di sotto, il lucore di una porta, un’uscita d’emergenza e un fantasma che l’attraversava impunemente. Era lei, doveva essere… Sì, doveva essere lei.
Racconto liberamente ispirato all’album “Igor” di Tyler The Creator
L'articolo Igor | Indie Tales proviene da Indie Italia Magazine.
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