La missione segreta degli iraniani in Russia per sviluppare il nucleare

Il 4 agosto 2024, il volo W598 della compagnia iraniana Mahan Air partito da Teheran è atterrato a Mosca. A bordo c’era Ali Kalvand, fisico nucleare iraniano, accompagnato da quattro uomini formalmente legati alla sua società di consulenza, la DamavandTec. All’apparenza, poteva sembrare un viaggio meramente tecnico.
Ma Kalvand non è uno scienziato qualunque. È laureato in fisica nucleare a Kyjiv, parla fluentemente russo. Il suo nome è collegato a diverse strutture della ricerca nucleare, e la DamavandTec ha legami con il mondo accademico e con l’industria della difesa iraniana. Una delle dirigenti dell’azienda è sua moglie, Laleh Heshmati, a capo di Mks International, società già sanzionata dagli Stati Uniti per aver procurato tecnologia al programma missilistico iraniano.
I quattro uomini che viaggiavano con Kalvand erano altre figure di peso: Javad Ghasemi, ex Ceo di un’azienda ritenuta dagli Stati Uniti una copertura per l’Organizzazione per l’Innovazione e la Ricerca Difensiva (Spnd), l’unità militare segreta considerata “erede diretta” del programma nucleare iraniano pre-2004; Rouhollah Azimirad, scienziato esperto in trasporto e rilevamento delle radiazioni, professore della Malek Ashtar University, a sua volta sanzionata da Unione europea e Regno Unito; Soroush Mohtashami, fisico specializzato in generatori di neutroni, elementi fondamentali per l’innesco di testate nucleari; Amir Yazdian, trentacinquenne senza profilo accademico o pubblico, identificato dai servizi occidentali come ufficiale della controintelligence militare iraniana.
Per questo il racconto ufficiale regge poco: i passaporti diplomatici della delegazione iraniana, rilasciati tutti nello stesso giorno e con numerazione sequenziale, suggeriscono un’operazione sospetta sotto copertura. Potrebbe essere stato uno snodo cruciale nella trasformazione del programma nucleare iraniano da civile a militare. Un’operazione condotta su mandato del Ministero della Difesa iraniano.
Secondo un’inchiesta del Financial Times pubblicata ieri, il gruppo ha visitato istituti russi noti per la loro produzione di tecnologie dual use, cioè con doppia funzione: componenti impiegabili in ambito civile, ma con possibili applicazioni nel campo degli armamenti nucleari. Sui quattro uomini al fianco di Kalvand, il Financial Times scrive: «Nessuno di loro è stato presentato come legato all’Spnd o al Ministero della Difesa, ma solo come rappresentanti di una società di consulenza privata».
Il lavoro di Miles Johnson e Max Seddon, gli autori dell’inchiesta sul quotidiano economico, si basa su lettere, documenti di viaggio e registri societari iraniani e russi, oltre che su interviste con funzionari occidentali ed esperti di non proliferazione nucleare.
Johnson e Seddon spiegano che tutti i luoghi visitati dalla delegazione iraniana sono associati a Oleg Maslennikov, scienziato russo di settantotto anni con una lunga esperienza nella produzione di klystron: tubi a vuoto in grado di amplificare segnali ad alta frequenza. Sono strumenti utili per gli acceleratori di particelle, ma anche per sistemi a raggi X ultrarapidi, impiegati nelle simulazioni di implosione di armi nucleari. «La nostra miglior ipotesi – ha detto al Financial Times David Albright, dell’Institute for Science and International Security – è che la delegazione fosse interessata ai tubi a raggi X ad alta potenza, utili per test diagnostici sull’implosione delle armi nucleari».
I due giornalisti hanno anche visionato una lettera inviata da DamavandTec a un fornitore russo a maggio 2024. Kalvand ha richiesto formalmente, a nome dell’azienda, tre isotopi radioattivi: Tritio, Stronzio-90 e Nichel-63. Il tritio, in particolare, è soggetto a strettissimi controlli internazionali a causa delle regole sulla non proliferazione: ha alcune applicazioni civili, ma è soprattutto usato per aumentare la potenza delle testate nucleari moderne.
Il Financial Times non ha trovato prove che il materiale sia stato effettivamente consegnato, ma la richiesta sarebbe sufficiente ad attirare l’attenzione del mondo intero. «La sola richiesta di tritio è sufficiente a far scattare l’allarme», ha detto William Alberque, ex direttore del centro per la non proliferazione della Nato. «Se uno richiede klystron, potrei pensare ad altre applicazioni. Ma se ci mette anche il tritio, è una pistola fumante».
Inoltre c’è un dettaglio macroscopico che non può sfuggire. La visita iraniana, dicono tutti gli esperti sentiti dal Financial Times, non avrebbe potuto svolgersi senza l’approvazione dell’Fsb, il servizio di sicurezza russo. Non si entra in strutture simili senza che l’Fsb lo sappia.
Chi ha monitorato le attività nucleari iraniane negli ultimi anni definisce la strategia di Teheran come «un’ambiguità calcolata»: un approccio che evita violazioni esplicite delle norme di non proliferazione pur consentendo alla ricerca scientifica di sviluppare il know how utile per costruire una bomba. Un modo per essere, in qualche modo, una minaccia: se l’Iran decidesse di costruire una bomba, allo stato attuale potrebbe riuscirci in tempi brevissimi.
L’Iran ha più volte negato di aver provato a costruire armi nucleari, citando una fatwa religiosa dell’Ayatollah Khamenei che ne vieta l’uso. Teheran sostiene che il suo programma nucleare sia interamente pacifico.
La missione iraniana in Russia scoperta dal Financial Times non fornisce di per sé prove tali da modificare le valutazioni occidentali sul programma nucleare iraniano, ma è un esempio del tipo di attività che ha sollevato molte preoccupazioni tra le agenzie di intelligence occidentali. «I documenti non indicano quale tecnologia o conoscenza la delegazione iraniana cercasse da queste aziende russe», si legge nell’inchiesta. «Tuttavia, numerosi esperti di non proliferazione contattati dal Financial Times affermano che i precedenti dei delegati, i tipi di aziende russe incontrate e la segretezza del viaggio destano sospetti».
La stessa Russia si è sempre opposta all’idea della costruzione di una bomba nucleare iraniana, almeno pubblicamente. Negli ultimi anni però qualcosa è cambiato. L’invasione su vasta scala dell’Ucraina e il crescente isolamento internazionale hanno cambiato lo schema di alleanze della Russia. L’Iran è uno dei pochi Paesi che continua a dialogare costantemente con il Cremlino. «Non possiamo fingere che la Russia non abbia cambiato visione», dice Pranay Vaddi, ex direttore per la non proliferazione del Consiglio per la Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti. «Oggi la tecnologia nucleare è solo uno dei tanti strumenti nella competizione geopolitica».
È chiaro che il programma nucleare iraniano, usato per scopi militari, oggi trova in Mosca una sponda. I rapporti più o meno celati tra gli esperti dei due regimi devono essere un motivo di preoccupazione per il resto del mondo. A maggior ragione dopo gli attacchi israeliani e americani dello scorso giugno, che hanno danneggiato ma non cancellato il programma nucleare degli Ayatollah.
Perché i missili e le bombe bunker-buster possono distruggere strutture e infrastrutture critiche, ma gli scienziati, il know how e le conoscenze tecniche sviluppate in questi anni non sono facili da sradicare. Per molti, infatti, il vero potere dell’Iran non risiede nelle centrali né nei laboratori, ma nelle competenze che ha maturato. È quello che ripeteva sempre lo scienziato Abbasi-Davani, figura chiave del progetto di Teheran, morto durante gli attacchi israeliani: «La nostra forza risiede nei nostri scienziati».
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