Cos’è l’appropriazione culturale e quando è diventata un problema nella moda

Le polemiche sui sandali Prada presentati alla Milano Fashion Week di giugno hanno riacceso uno dei dibattiti più spinosi e complessi del settore della moda: cosa definisce l’appropriazione culturale? Il termine ha iniziato a circolare con insistenza negli ultimi anni, ma la questione di “cosa si può copiare e cosa no” non nasce certo ora. E, complici la pressione dei social e delle generazioni più giovani, nessun brand può sottrarsi a questo tipo di conversazione.
Cos’è l’appropriazione culturale
L’idea di “appropriazione culturale” ha iniziato a diventare un tema negli ultimi decenni, ed è un concetto legato alle dinamiche di potere all’interno della moda e alle contraddizioni di un mondo globalizzato. Nasce infatti da uno squilibrio di potere tra una cultura dominante e una marginalizzata e, in questo senso, è un sottoprodotto del colonialismo.
Una definizione particolarmente calzante è quella sintetizzata da Benedetta Morsiani, dell’Università di Westminster a Londra: “L’atto attraverso il quale le specificità di una data cultura, come simboli, artefatti, generi, rituali o tecnologie, vengono utilizzate da membri di una cultura diversa”. Un fenomeno che oggi si riferisce principalmente allo sfruttamento delle culture emarginate da parte delle culture dominanti.

Naomi Campbell nella sfilata Christian Dior Couture Autunno 1998 (Photo by Giovanni Giannoni/WWD/Penske Media via Getty Images)
La contaminazione nella storia della moda
In realtà, la contaminazione tra diverse culture permea l’umanità fin dalla notte dei tempi ed ha nutrito per secoli – forse millenni – la storia dell’arte, della filosofia, dell’architettura e della letteratura. Nel settore della moda è particolarmente evidente nell’adozione di tecniche, tessuti e decorazioni tipici di altri popoli. Le rotte commerciali sono sempre state canali di comunicazione aperti. Basti pensare alle influenze del lontano Oriente, che sistematicamente affascinano la moda: dalla Via della Seta alla mania del Giapponismo (o Japonisme) di fine Ottocento, fino ad arrivare agli abiti Dior ispirati ai kimono. Quando però Kim Kardashian pensò di rinominare una linea di shapewear “Kimono Intimates”, i social l’hanno accusata di mancare di rispetto agli abiti tradizionali, costringendola a cambiare nome.
Perché Gucci è stato accusato di appropriazione culturale
Kim Kardashian è solo un nome nella lunga schiera di star, imprenditori e brand accusati di appropriazione culturale. Anche se la sensibilità personale gioca un ruolo importante, di fatto si parla di appropriazione culturale quando un oggetto (in questo caso il kimono) viene ricontestualizzato in modo improprio, ignorando il contesto originario o riducendolo a mero feticcio estetico.
È particolarmente evidente quando la moda si appropria di simboli religiosi di una minoranza svuotandoli del significato originale, e riducendoli ad accessori costosi ed esclusivi. Senza che nulla torni alla comunità che li ha creati. Un esempio lampante è il turbante di Gucci, apparso nella sfilata Autunno/Inverno 2018. La stessa, per capirci, dei capelli pagoda, dei draghi-peluche e dei passamontagna che hanno creato non pochi grattacapi al brand. Almeno tre modelli indossavano turbanti blu uguali a quelli usati nei riti religiosi dalla comunità Sikh, che ha fatto pressioni perché venissero ritirati dai negozi.

Il turbante apparso nella sfilata A/I 2018 di Gucci
Da Marc Jacobs a Victoria’s Secret: le polemiche più famose
L’anno precedente, Marc Jacobs aveva fatto sfilare modelle molto bianche con acconciature di rasta colorati. Più che un omaggio alla comunità afroamericana, le ciocche attorcigliate evidenziavano un grande paradosso sociale: le persone nere spesso venivano invitate a eliminarli sul posto di lavoro per una questione di “rispettabilità”, ma erano perfettamente accettabili – anzi, glamour – su modelle bianche. Per non parlare poi dei copricapi piumati dei nativi americani, un simbolo di onore spesso usato in modo puramente estetico e feticizzato.
Nel 1998, fu John Galliano a portarli in passerella nella collezione Dior soprannominata “Diorient Express”. Molti anni dopo, le stesse piume furono aspramente criticate in una sfilata di Victoria’s Secret. Cos’era cambiato? La sensibilità del pubblico, indubbiamente, ma anche il crescente potere dei social e della “calling out culture”, cioè il pubblico richiamo di ciò che non va, che spesso sfocia nella pubblica gogna. Pagine come @DietPrada ne sono l’esempio lampante.

Nel 2017 Marc Jacobs fu criticato per la scelta dei rasta su modelle bianche
Il problema dell’appropriazione culturale non è solo lo slittamento di significato di un’icona o di un particolare abito. È soprattutto la depredazione di una tecnica o di un motivo senza citare la fonte, senza corrispondere a chi l’ha creata né compensazione economica né riconoscimento.
Le critiche ai sandali indiani di Prada
Arriviamo così al 2025 e ai sandali in cuoio di Prada, che ricordano molto da vicino i chappal di Kolhapuri, tipicamente prodotti nell’India Occidentale. La Camera di commercio dello stato indiano del Maharashtra ha esplicitamente accusato l’azienda di averli copiati senza citarne il nome o la provenienza, e Prada alla fine ha ammesso l’ispirazione in una lettera.
Ma dove si traccia la linea tra influenza e appropriazione? Tra ispirazione e furto? La stessa Miuccia Prada si era posta il problema in un’intervista del 2019 a WWD, in cui diceva: “Penso sempre più spesso che qualunque cosa uno faccia oggi possa essere offensiva”. Per poi concludere: “Può essere una mancanza di generosità da un lato, ma d’altra parte come facciamo a conoscere tutte le culture? Le proteste cinesi, poi i Sikh, poi i messicani, poi gli afroamericani. Ma come si possono conoscere tutti i dettagli di ogni singola cultura quando ci sono oltre 100 culture diverse in ogni Paese?”

I sandali della collezione Prada P/E 2026
Le strategie dei brand
Se è vero che non esiste una regola univoca, è anche vero che ci sono dei modi, per i brand, per tutelarsi dalle accuse e promuovere un rapporto più etico e sano con le piccole comunità di artigiani locali. Il primo è la trasparenza: ammettere l’ispirazione può essere un modo per accendere i riflettori su realtà poco conosciute o geograficamente remote, a beneficio di entrambe le parti. Il passo successivo è una collaborazione attiva con artigiani, designer locali, piccole realtà produttive. Dior, in questo senso, ha tracciato una strada, lavorando spesso con le comunità artigiane per le collezioni Cruise. E poi, ovviamente, non può mancare una profonda conoscenza e un sincero rispetto della cultura da cui si trae ispirazione. Altrimenti, l’omaggio rischia di essere solo una mossa di marketing.
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