Dazi, il colpo all’export Ue e gli acquisti di gas Usa: von der Leyen corre ai ripari ma per lei consensi in caduta libera

Lug 30, 2025 - 14:30
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Dazi, il colpo all’export Ue e gli acquisti di gas Usa: von der Leyen corre ai ripari ma per lei consensi in caduta libera

Una disfatta per l’Ue, ma anche un accordo (c’è un accordo?) che prevede punti totalmente irrealizzabili. Sui dazi statunitensi si è creata una situazione di puro caos. La stretta di mano e i sorrisi a favore di telecamere di Ursula von der Leyen e Donald Trump hanno innescato una serie di reazioni a catena di cui ancora a 48 ore di distanza non si capisce il possibile punto di caduta. Da Bruxelles, di fronte alle critiche provenienti dalla maggior parte dei 27 Paesi comunitari, viene sottolineato che non c’è niente di «giuridicamente vincolante» e che fino alla scadenza del 1° agosto tutto ancora può succedere. Una mossa dettata dalla presidente della Commissione Ue, che evidentemente ha capito che le tariffe doganali al 15% sull’export europeo verso gli Usa non sono state recepite come una vittoria rispetto al 30% minacciato da Trump. Bisogna solo capire se von der Leyen ha agito fuori tempo massimo. I commenti provenienti dai Paesi comunitari parlando di un cedimento totale di fronte a tasse doganali che rimangono allo 0,9% per i prodotti americani che entrano in Europa. Altro che i «dazi reciproci» voluti dal tycoon quando ha innescato l’offensiva commerciale. Qui, sottolinea un eurodeputato dai toni e modi solitamente pacati come Dario Nardella, non siamo in presenza di dazi reciproci e neanche c’è stata una guerra sui dazi ma solo una semplice resa da parte dell’Ue, e la responsabilità è di chi non ha voluto «irritare il sedicente amico Trump»: la premier Meloni, dice l’eurodeputato italiano (Pd, gruppo dei Socialisti&Democratici in Europa) guardando ai fatti di casa nostra, ma soprattutto von der Leyen.

La presidente della Commissione Ue è sempre più vicina a scendere sotto il livello minimo dei consensi, al Parlamento europeo. E, in particolare, all’interno della sempre più traballante “maggioranza Ursula”. Nelle ultime settimane sono emersi malumori per come è stata gestita la partita del bilancio Ue, il gruppo dei Socialisti&Democratici ha duramente contestato il fatto che si stia smontando pezzo dopo pezzo l’Agenda verde europea soprattutto per responsabilità degli “alleati” del Partito popolare europeo, e all’interno dello stesso Ppe sono sempre più numerosi gli eurodeputati che, quando si deve scegliere tra le proposte della Commissione Ue e i giudizi dei conservatori tedeschi più fedeli al capogruppo Manfred Weber e al cancelliere Friedrich Merz, scelgono questi ultimi senza preoccuparsi di indebolire sempre più von der Leyen. All’interno dello stesso Partito popolare c’è chi imputa quanto sta succedendo alle frizioni tra von der Leyen e Merz, che nel 2019 aspirava al ruolo di presidente della Commissione Ue ma si è visto scavalcare dalla collega di partito. Ma non possono essere soltanto vicende personali a determinare tutte le criticità che stanno emergendo ultimamente a livello europeo. Ora c’è addirittura chi ipotizza che a settembre potrebbero esserci nuovi scossoni che farebbero traballare ancora di più von der Leyen rispetto al suo ruolo di guida della Commissione Ue. E se nuove mozioni di sfiducia, che questa volta potrebbero andare a segno, sono da escludere, non altrettanto certo è che la vicenda “pfizergate” sia definitivamente chiusa. Proprio in queste ore sono scaduti i tempi che Commissione europea aveva a disposizione per appellarsi alla sentenza del tribunale dell’Ue sullo scambio di messaggi ai tempi del Covid tra von der Leyen e il produttore di vaccini Pfizer. Per ora le ripercussioni del caso sono state limitate, ma non è detto che nei prossimi mesi non arrivino nuovi colpi di scena destinati ad essere cavalcati da chi vuole un cambio al vertice della Commissione Ue.

Quel che è certo, al momento, è che von der Leyen ha fatto un azzardo ad assecondare Trump sulla partita dei dazi. In Italia, per limitare lo sguardo al nostro Paese, non ci sono soltanto le forze di opposizione a contestare il modo in cui si è ceduto all’«amico» di oltreoceano. Dopo gli allarmi lanciati nei giorni scorsi da Cna e Centro studi Confindustria, lo Svimez ha calcolato che con dazi al 15% avremo una riduzione del 14% delle esportazioni, pari a oltre 8,6 miliardi l’anno e una diminuzione di oltre 103 mila unità di lavoro a tempo pieno.

E quel che è certo, allargando lo sguardo all’intera Unione europea, è che quanto riportato dalle schede informative pubblicate dalla Casa Bianca dopo la stretta di mano Trump-von der Leyen, ovvero che l’Ue dovrà acquistare energia dagli Stati Uniti per 750 miliardi di dollari da qui al 2028, è impossibile che si realizzi. Per una serie di motivi ben precisi. Primo fra tutti il fatto che l’export globale degli Usa di Gnl, petrolio greggio e carbone per usi metallurgici è valso 165,8 miliardi di dollari nel 2024. Ma se pure gli Usa, in onore del «drill, baby, drill» lanciato da Trump in questo secondo mandato alla Casa Bianca, dovessero riuscire a estrarre il combustibile fossile necessario per vendere 250 miliardi di dollari in energia all’anno, l’Europa non avrebbe né modo né ragione di fare acquisti di queste dimensioni: il consumo di combustibili fossili, e in particolare di Gnl, sta costantemente calando in linea con il ridursi della domanda.

Ha senso interrompere la strada delle rinnovabili, più convenienti delle alternative fossili, per accontentare i desiderata statunitensi? No, per l’Istituto di economia energetica e analisi finanziaria (Institute for energy economics and financial analysis, Ieefa), che sottolinea tre fattori. Il primo: acquistare 750 miliardi di dollari di energia statunitense nei prossimi tre anni è un obiettivo irraggiungibile e che però al tempo stesso potrebbe mettere a rischio la sicurezza energetica dell’Unione europea. Il secondo: aumentare significativamente le importazioni di Gnl dell’Ue per soddisfare l’accordo non è realistico poiché appunto la domanda di gas dell’Europa è in calo costante. Terzo: spendendo invece 750 miliardi di dollari in energie rinnovabili, l’Ue sarebbe in grado di espandere la sua capacità solare ed eolica installata di circa il 90%, con evidenti benefici non solo di carattere ambientale ma anche a livello economico e di indipendenza energetica.

Come sottolinea l’Ieefa, l’Ue ha pagato circa 225 miliardi di euro per le importazioni di Gnl negli ultimi tre anni, di cui 100 miliardi di euro per quello statunitense. Questo importo elevato è in parte dovuto al fatto che il Gnl statunitense è più costoso per gli acquirenti comunitari rispetto al Gnl di qualsiasi altro fornitore. Già ora, nella prima metà del 2025, il 55% delle importazioni di Gnl dell’Ue proveniva dagli Stati Uniti, il 16% dalla Russia, il 9% dal Qatar, il 6% dalla Nigeria e il 5% dall’Algeria. Il piano di acquisti di 250 miliardi di dollari di energia statunitense all’anno rischia dunque di creare un’eccessiva e antieconomica dipendenza da un solo fornitore. Sulla base dei prezzi del 2024 e del mantenimento della stessa percentuale di prodotti energetici acquistati dagli Stati Uniti rispetto alle importazioni totali di energia, l’Ieefa stima che l’Ue avrebbe bisogno di triplicare le sue importazioni statunitensi di petrolio, carbone e Gnl nel 2025 per soddisfare l’impegno, con evidenti ripercussioni economiche rispetto all’attuale diversificazione con fornitori che assicurano prezzi inferiori. E tutto questo, senza contare il danno in termini di impatto ambientale. E la certezza, dovessimo veramente triplicare l’acquisto di combustibili fossili dagli Usa, che l’Ue non centrerà gli obiettivi di decarbonizzazione fissati per le prossime scadenze. Un’ulteriore concessione, a beneficio degli Usa e con perdite nette per l’Europa e non solo, a quel Trump che ha lanciato una crociata a favore di Big Oil e sbeffeggia con argomenti che non stanno in piedi i «mulini a vento» europei.

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