Gaza. L’etica infranta e l’illusione della democrazia

Lug 26, 2025 - 15:30
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Gaza. L’etica infranta e l’illusione della democrazia

di Gianvito Pipitone –

Dopo il 7 ottobre 2023, il conflitto israelo-palestinese ha cambiato volto. L’attacco di Hamas ha scatenato una controffensiva israeliana senza precedenti che non si è limitata alla risposta militare, ma ha aperto una crisi morale e geopolitica. Oggi, a un anno e nove mesi di distanza, non si tratta più soltanto di uno scontro tra due entità asimmetriche, i terroristi di Hamas e le forze armate israeliane dell’IDF, ma del crollo di un ordine etico internazionale e del fallimento del progetto democratico israeliano.
Gaza è ormai diventata questo: emblema universale di sofferenza e abbandono. Affamata, bombardata, isolata: la Striscia non è più solo un teatro di guerra, ma la testimonianza tangibile di un mondo che ha smesso di difendere i diritti umani. Mentre il silenzio complice delle potenze occidentali pesa quanto le bombe, e i recenti riconoscimenti dello Stato di Palestina da parte di Francia e Regno Unito sembrano manovre di facciata, più volte utili a salvare reputazioni che vite umane.
La genesi dello Stato di Israele, nel 1948, ha segnato l’ingresso nel Medio Oriente di una matrice identitaria diversa, seppur storicamente autoctona, ma culturalmente distante dal mosaico storico di convivenze religiose e culturali lì presenti. Alawiti, drusi, sunniti, sciiti, cristiani aramaici, yazidi: un equilibrio antico nel quale le istanze israeliane, nuove e vecchie, hanno faticato a integrarsi. A 75 anni dalla sua fondazione, il fallimento di quel modello democratico inclusivo appare evidente. La democrazia israeliana, proclamata e ostentata ai quattro venti, non ha saputo garantire equità, rappresentanza e giustizia. Tocca riconoscerlo, seppure a malincuore.
In passato, un barlume di speranza c’era stato. Gli accordi di Oslo del 1993, firmati da Rabin e Arafat, avevano aperto una possibilità di convivenza. Ma l’assassinio di Rabin per mano di un estremista israeliano, nel 1995, ha interrotto quel percorso. Da allora, la radicalizzazione ha preso il sopravvento: Hamas da un lato, i coloni suprematisti dall’altro. Il dialogo è diventato illusione, mentre la destra israeliana si è fatta via via più estrema, fino ad essere tacciata, orrore degli orrori, di avere matrice e ispirazione nazista. Un orribile controsenso.
Giorno dopo giorno, Israele prosegue l’offensiva militare con forza devastante, e mentre circa cinquanta ostaggi israeliani restano ancora nelle mani di Hamas, prede dell’attacco terroristico di quel terribile 7 ottobre del 2023, si impone un dilemma morale: può il dolore di alcune famiglie giustificare la distruzione di un intero popolo? Ovviamente no. Il dolore non può essere usato come alibi per la brutalità, né come leva politica.
Ma Israele non è sola in questo obbrobrio. È stato il contesto internazionale a favorire lo squilibrio sulle forze in campo. L’appoggio incondizionato dell’amministrazione Trump ha lasciato mano libera a Israele, mentre un’Europa debole e divisa ha permesso al primo ministro d’Israele, Benjamin Netanyahu, di stringere alleanze con partiti suprematisti e smantellare ogni residuo di diritto.
Quanto potrà durare ancora questo inferno? Ce lo si chiede annichiliti, senza una risposta plausibile. Nonostante stia perdendo pezzi importanti, Netanyahu e la sua cricca sembrano resistere. Ma la caduta arriverà. E allora non ci sarà liberazione, bensì l’inizio di una resa dei conti storica. A quel punto, Israele sarà chiamata a fare i conti con una memoria collettiva segnata dal sangue, mentre Gaza dovrà rinascere dalle rovine, dove convivono lutto, trauma e vendetta. Gli israeliani moderati cercheranno probabilmente di prendere le distanze dalla complicità di quel governo da loro osteggiato; laddove gli estremisti ora al potere, isolati, potrebbero considerare l’esodo come un’ancora di salvezza. Fantascienza? Forse. O piuttosto un auspicio, se non una previsione.
La lezione di questa guerra rimane chiara: la coesistenza non era matura ieri e non lo è nemmeno oggi. Una patria non si costruisce sul dolore altrui. Anche perché, se “patria” assume il valore di sterminio, allora è meglio non averne una, piuttosto che possederne una esclusiva e illiberale. Si’, senza farsi troppe illusioni, ci vorrà del tempo, parecchio tempo, per lenire il dolore di questo abominio, prima di tornare a parlare di due popoli e due stati.
Il futuro del Medio Oriente è, oggi più che mai, tutto da scrivere. Ma il primo capitolo dovrà essere redatto con onestà, memoria e giustizia. Solo così la pace potrà essere autentica: non tregua tra le macerie, ma rinascita delle coscienze.

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Redazione Redazione Eventi e News