I giustizieri social di Segre e Grossman, e la lezione morale di Wanna Marchi

Agosto 5, 2025 - 09:00
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I giustizieri social di Segre e Grossman, e la lezione morale di Wanna Marchi

Questo non è un articolo sull’affrontare la parola “genocidio” come fosse la moviola in campo; non è un articolo sul fatto che le guerre magari finiscono ma l’isteria collettiva mai (trova solo un nuovo pretesto); non è neppure un articolo per dire «ve l’avevo detto che il problema erano le community» (oddio, forse un po’ su questo lo è): questo è un articolo su Wanna Marchi, ma soprattutto sulla cosa per cui tutti i miei coetanei ringraziano ogni giorno prima e dopo i pasti.

Tra le evoluzioni del mondo, chi ha avuto vent’anni nel secolo scorso non ringrazia tanto che l’aria condizionata si sia diffusa in Europa in tempo per le nostre caldane (certo, anche per quello); non ringrazia tanto che i pasti a domicilio siano diventati una comodità diffusa in tempo per la nostra pigrizia senile (certo, anche per quello); soprattutto, ringraziamo di non aver avuto dei telefoni con la telecamera e la connessione al mondo quando avevamo venti stupidissimi anni e nessun senso delle gerarchie, dei limiti, del nostro posto nel mondo.

A vent’anni ero, come ogni ventenne, piena di ottuse certezze. Molte delle quali riversate sul medioriente, che anche allora era più à la page del Ruanda, per citare un genocidio di quegli anni (“genocidio” non era ancora considerata una parola magica, però, allora: avevamo difetti diversi, non quello di considerare le parole incantesimi).

Nel 1991, ho diciannove anni, David Grossman scrive le sue conversazioni coi palestinesi d’Israele (nell’edizione italiana: “Un popolo invisibile”). È già David Grossman – è già stato soldato nella guerra di Yom Kippur, ha già scritto non so quanti libri, è già il padre di Uri – ma magari c’è ancora qualcuno che non lo conosce: Uri non è ancora morto nell’ennesima puntata della guerra tra Israele e il Libano, suo padre non ha ancora vinto il Booker.

Sono tre giorni che penso alla più imbarazzante delle distopie. La me ventenne che torna dai suoi bravi viaggi solidali nei territori occupati e, invece di scrivere lettere indignate ai suoi amici e parenti, prende il telefono e gliene canta quattro, a Grossman: ora glielo spiego io quanto soffrono i palestinesi, ora gli dico io quanto sono irricevibili i suoi pareri. Sono tre giorni che ringrazio tutti gli dèi di tutte le religioni in cui non credo di avermi salvata da me stessa. Sono tre giorni che penso che sarei potuta essere una qualunque di loro: una influencer che “Nakba” lo deve cercare su Google, una follower che neanche lo cerca perché dà per scontato sia il piatto d’un ristorante esotico.

Nessuno legge più un cazzo. Lo dico al sicuro dopo il numero di caratteri di stampa che possono andare nell’estratto social di questo articolo, che saranno le righe che i più zelanti leggeranno: gli altri, solo il titolo. Concita De Gregorio ha, negli ultimi tre giorni, dedicato due articoli a questo concetto – due articoli di cui il lettore medio avrà letto le dieci righe fotografate su qualche social.

Al concetto che nessuno legge più un cazzo ma che tutti hanno opinioni perentorie e urgentissime su tutto, e preferiscono usare il tempo libero per ascoltare il suono della loro stessa voce mentre ti dicono cos’hai scritto di sbagliato invece che usarlo per leggere cos’hai scritto davvero: tanto si capisce dal titolo, no? Mica mi vorrai dire che il titolo non rispecchia il pezzo? (Sulla tomba mi farò scrivere: «Non disse mai: il titolo non l’ho fatto io» – ma non divaghiamo).

Concita si riferisce alle incredibili reazioni alle interviste di Repubblica a David Grossman e a Liliana Segre, due interviste che dicevano le stesse ragionevolissime cose ma che sono state raccontate come contrapposte da gente che evidentemente aveva letto solo i titoli (titoli forzati come lo sono i titoli, in anni in cui per convincere qualcuno a filartisi devi esagerare: la risposta del pubblico imbecille a una tradizione di titoli non rispondenti ai contenuti è continuare ostinatamente a leggere solo il titolo, commentare a casaccio, e poi dire che eh però il titolo era quello, che pretendete da me).

Poi ci sarebbe anche il fatto che, se pure quei due avessero detto cose che appaiono irragionevoli – essendo la ragionevolezza un gusto personale – io che non ho più vent’anni e che al massimo in campo di concentramento posso esserci andata in gita turistica non mi metto a spiegare a Liliana Segre cosa sia un genocidio, per una gamma di motivi che va dal senso del ridicolo alla continenza alla decenza. Non mi ci metto né se studio queste cose da anni né se fino all’altroieri chiedevo all’intelligenza artificiale se Yom Kippur fosse uno yogurt greco particolarmente magro: non mi ci metto perché no.

Cosa determina il tuo essere Wanna Marchi nella letteratura e nel giornalismo? È la domanda che ci facciamo più spesso tra gente che di mestiere scrive. Il riferimento è a quel documentario in cui Wanna Marchi disse, mi scuso con chi è sensibile alle brutte parole, che «i coglioni vanno inculati», procedura che nel caso di chi fabbrica parole ha almeno due interpretazioni possibili.

Posto che il pubblico non ha più alcuna voglia d’imparare, e ritiene il talento una forma di bullismo tesa a complessarlo, e decreterà il successo di prodotti elementari, di fronte ai quali applaudire non perché presa per incantamento ma perché «anch’io l’avrei fatto esattamente così», acclarato tutto ciò: come si diventa la Wanna Marchi delle lettere?

Ce ne sono molteplici, ci sono sempre stati, abbiamo tutti in mente – anche da anni meno analfabetizzati dai video sui cellulari – editorialisti di gran successo leggendo i quali ci imbarazzavamo moltissimo. La domanda è quale sia la procedura.

Devi essere mediocre, per produrre testi mediocri? O devi essere così eccezionalmente dotato da riuscire anche a simulare mediocrità? È una domanda alla quale nessuno ha ancora trovato risposta. Tutti gli eccezionalmente mediocri che ho incontrato nei miei trent’anni a lavorare nei mezzi di comunicazione hanno un tratto in comune: si struggono perché sì, conti correnti pieni, ma recensioni di intellettuali vuote. Hanno il pubblico, che gli fa schifo se non per le case al mare che permette loro di comprarsi, e vorrebbero la critica. È tipo coi capelli: se li hai lisci, li vuoi ricci, alle ricce pare incredibile ma evidentemente è sempre quel dio capriccioso di cui parlava Stefano Benni quand’ero piccola, Amikinont’amanonamikit’ama.

E quindi è impossibile capire se ci siano o ci facciano un po’ tutti. Il romanziere di successo che dice che altro che Grossman, bisogna dare il Nobel a Ghali che disse «genocidio» a Sanremo. La influencer di altrettanto successo che dice che ora si svegliano tutti, ma finora tutti muti, riferendosi a scrittori che hanno la produzione intellettuale degli ultimi anni piena di articoli, post, interventi sul tema. Il giornalista musicale che, dopo mesi di bandiere palestinesi sventolate su qualunque palco di qualunque concerto, annuncia un concerto di Piero Pelù intitolato “Sos Palestina” con le parole «Finalmente degli artisti che prendono posizione». Forse vivono tutti in quel film con Kate Winslet e Jim Carrey. Forse nell’economia dell’attenzione è impossibile tenere a mente cosa sia successo l’altroieri.

Fatto sta che poi ci sono le community (in wannamarchese: i coglioni) le quali, ne parlavo non molti giorni fa, leggono solo il loro beniamino. E quindi ieri mi sono letta come fosse stata una saga fantasy la pletora di commenti che, sull’Instagram d’una scrittrice (i nomi non sono importanti, a meno che non si voglia trasformare il dibattito culturale in pettegolezzo, che è un hobby come un altro ma magari non nello stesso minuto in cui si finge di star salvando il mondo), le dicevano di vergognarsi perché finora era stata zitta su Gaza.

Ho fatto una scommessa con me stessa e l’ho vinta, non perché conosca la scrittrice ma perché so che nel club «nessuna persona intelligente si esprime in pubblico su un conflitto che neanche i premi Nobel son riusciti a risolvere» siamo in pochissimi. Sono andata indietro tra le sue foto, per vedere quanto ci volesse a trovare precedenti penzierini sul tema. «Gaza muore di fame. Disertiamo il silenzio»: 21 luglio. «Tutti in piedi accanto a Francesca Albanese»: 11 luglio.

Si può pretendere che i follower di una, che evidentemente leggono solo quello che scrive quell’una e lo scambiano per parola di Dio (da quando non credete più nelle religioni, credete nei like), vadano sulla pagina d’un’altra e perdano otto secondi a scorrere i post dell’ultimo mese? Certo che no: quegli otto secondi possono impiegarli per commentare indignati, vuoi mettere la dopamina.

Questo non è un articolo su Ghali che dice «genocidio» un anno e mezzo fa, ma se in un anno e mezzo non porti a termine un genocidio in meno di cinquanta chilometri quadrati non sei granché efficiente, perché il var (mi sono ridotta alle metafore calcistiche, che vergogna) sulla parola genocidio mi sembra una puttanata buona per chi scambia i like per autorevolezza.

Questo è un articolo sul fatto che l’altro giorno sul Financial Times c’era un lungo approfondimento sulla disposizione del nostro tempo a cadere preda delle figure carismatiche. A me “carisma” non piace, come categoria: mi sembra fumosa, ogni volta che si attribuiscono le reazioni a qualcuno a questa misteriosa qualità mi sembra che invece la platea stia reagendo a doti ben più concrete di quel qualcuno. La ricchezza, il potere, persino il successo stesso, che è una categoria che si autoalimenta. I like generano like, il traffico genera traffico, il fatturato genera fatturato.

Però a un certo punto, sul Financial Times, si faceva parlare l’a me sconosciuta Olivia Fox Cabane, autrice di “Il segreto del carisma”. La signora non di diritti d’autore vive, ci svela l’articolo, ma di corsi. Dice lei stessa che il carisma varrebbe meno se tutti capissero come averlo, ma tiene corsi a gente che s’illude lei possa insegnarle a essere carismatica. Tariffa minima: duecentocinquantamila dollari l’anno.

Questo è un articolo sull’etica del wannamarchismo: è più morale raccontare puttanate al ricco che vuol essere interessante, o al porocristo che vuole percepirsi informato leggendo solo le didascalie social?

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