La crisi della pesca tra importazione di massa, eccessi e declino della cultura gastronomica

Agosto 2, 2025 - 18:30
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La crisi della pesca tra importazione di massa, eccessi e declino della cultura gastronomica

È ormai mezzogiorno al mercato del pesce di Rialto, a Venezia, e di pescato, sui banconi, ce n’è ancora molto: sogliole, rombi, triglie, lucci, moeche, ghiozzi, anguille. I commercianti cominciano a ritirare le strutture e a sciacquare con le pompe le proprie postazioni. Di tutto il pesce rimasto invenduto, una parte finirà sulle tavole degli stessi pescatori, un’altra sarà regalata ad amici o parenti, o “svenduta” a ristoratori tramite accordi diretti. Ma il pesce che avanzerà tornerà nel mare della laguna – chiaramente morto – venendo di fatto gettato via.

In una città come Venezia, il problema del pesce invenduto e della crisi generale del settore ittico può apparire meno drammatico, grazie ai numerosi turisti curiosi che, anche solo per esperienza, decidono di acquistare del pesce nel pittoresco scenario di Rialto. Ma si tratta di un’eccezione: se si escludono queste situazioni turistiche fortunate, la crisi della filiera ittica locale riguarda tutte le coste italiane.

Nel nostro Paese infatti i prezzi del pesce di acqua salata – come branzini, orate e spigole – variano sensibilmente da regione a regione. Nei supermercati del Sud, in particolare in Campania, Puglia e Calabria, il costo medio si aggira intorno agli undici euro e cinquanta al chilogrammo. Salendo verso il Centro, la cifra cresce di circa venti per cento, arrivando a una media di tredici euro e cinquanta al chilogrammo. Le soglie più alte si toccano nel Nord, soprattutto tra Triveneto e regioni nord-occidentali, dove il prezzo raggiunge anche quindici euro al chilogrammo.

Questi dati mostrano come i prezzi al dettaglio non rispecchino il reale valore del pescato locale: mentre nei supermercati si arriva fino a quindici euro al chilo, molti pescatori sono costretti a svendere o rigettare il pesce invenduto. Un paradosso che alimenta lo spreco e penalizza chi lavora in mare.

Il fenomeno ha molte cause, ma anche questioni etiche e possibili soluzioni. Partiamo da uno dei fattori determinanti della crisi. La “mannaia” più pesante è probabilmente l’importazione massiccia di pesce dall’estero, che con i suoi numeri rilevanti e i prezzi più competitivi strozza i circuiti locali: nel 2024, l’Italia ha raggiunto un record storico con 1,1 miliardi di chilogrammi di pesce straniero importato, tra fresco, congelato e trasformato, come gamberetti e cozze. Questo implica che oggi tra l’ottanta e il novanta per cento del pesce consumato in Italia proviene dall’estero, in decennale crescita dalla quota del trenta per cento circa degli anni ottanta.

I piccoli pescatori, infatti, che a volte sbarcano con pochi quintali nelle reti, faticano a competere. La seconda riguarda le scelte alimentari dei consumatori, orientate dalle consuete dinamiche del capitalismo. La pesca locale non può contare su azioni di marketing efficaci. E dall’altro lato, multinazionali e pubblicità remano contro cercando di spingere prodotti pescati negli oceani. Anche la cultura della comodità gioca un ruolo centrale.

Per trovare pesce buono bisogna saperlo riconoscere, andarlo a cercare e soprattutto essere disposti a pagarlo. Una spigola locale può arrivare a costare oltre venti euro al chilo, contro i nove o dieci di un’omologa greca o turca d’allevamento.

Va in questo senso l’appello del pescatore e attivista Angelo Mosè Natarelli, fondatore dell’associazione Pescatori a tavola: «Scegliere il pescato locale non è solo una questione di gusto, ma un gesto concreto per sostenere le comunità costiere, tutelare i nostri mari e difendere un patrimonio gastronomico che ci appartiene da generazioni. L’importazione ci sarà sempre – osserva – perché quello che peschiamo in Italia non copre il fabbisogno nazionale. Ma sarebbe comunque ideale limitarla e, soprattutto, serve chiarezza: oggi molti prodotti vengono spacciati per italiani, mentre non lo sono. Il problema è la tracciabilità. Dalla barca alla pescheria tutto è etichettato, ma quello che arriva in tavola al ristorante spesso è irriconoscibile per il consumatore. Serve trasparenza per un consumo consapevole».

Angelo Natarelli

Oltre alla concorrenza internazionale, un altro fattore che ha aggravato la situazione negli ultimi anni è il cambiamento climatico. La variazione delle temperature marine ha modificato le stagioni di pesca, influenzando le abitudini migratorie dei pesci e la loro presenza. Molti ecosistemi stanno proprio scomparendo.

Lo conferma Roberto Sandulli, professore ordinario di zoologia e biologia marina all’Università di Napoli Parthenope: «L’aumento delle temperature dei mari e degli oceani agisce direttamente sulla fisiologia di alghe, piante marine, invertebrati e pesci e ne altera anche il comportamento, i tassi di crescita, la riproduzione e la distribuzione. Alcune specie ampliano la loro area spostandosi verso nord o in acque più profonde e fresche, mentre quelle più stanziali vedono aumentare la mortalità».

Nel Mediterraneo le nuove condizioni stanno favorendo l’arrivo di specie aliene e la scomparsa di alcune locali: «Nuove specie arrivano con crescente frequenza dai mari più caldi – spiega Sandulli – e sono ormai circa un migliaio, di cui circa centotrenta sono pesci. Molti diventano infestanti, entrando in competizione con le specie endemiche. Tra gli ultimi arrivati ci sono alcune specie di pesci coniglio e una di pesce cobra».

Roberto Sandulli

Il problema delle specie invasive ci è saltato all’occhio con il caso del granchio blu, ma non c’è solo lui. Un esempio emblematico per il professore è quello di un plancton entrato negli anni Novanta nel Mar Nero: «Ha cominciato a nutrirsi di uova e larve di pesci pelagici, riducendone fortemente le popolazioni, fino a far collassare l’economia locale della piccola pesca».

La vita dei pescatori, in questo scenario, si fa sempre più complicata, anche perché le necessità economiche spingono spesso a una pesca sconsiderata e intensiva. «Le risorse si stanno depauperando per sovrappesca o cattiva gestione. A questi problemi si aggiungono quelli causati dal surriscaldamento delle acque. Oggi più che mai – prosegue Sandulli – è fondamentale pescare in maniera sostenibile, prelevando solo con attrezzi adeguati e senza compromettere la sopravvivenza delle popolazioni naturali».

Sulla figura del pescatore come responsabile principale della penuria ittica non c’è però unanimità. Natarelli infatti contesta alcune narrazioni troppo sbilanciate: «Ci sono campagne mediatiche che fanno passare il pescatore come distruttore, soprattutto con la pesca a strascico. Si dice che ariamo i fondali, ma non l’abbiamo mai fatto né lo faremmo: scavare potrebbe danneggiare il peschereccio stesso».

Più che il pescatore per Natarelli sono gli scarichi e l’immondizia gettata in mare a danneggiare i fondali: «Nel nostro mare ci sono zone con depuratori che non funzionano – denuncia – alcuni non vengono manutenuti da anni. Tutti i medicinali finiscono al mare. Nei fiumi la situazione è anche peggiore: ci sono aree dove i pesci sono completamente scomparsi».

Un’altra criticità è il progressivo abbandono della professione da parte delle nuove generazioni. Lucia, giovane pescatrice veneziana, racconta: «Molti miei coetanei hanno paura di entrare in un settore che non sostiene più le famiglie. È un mestiere stressante: si dorme poco e si lavora tanto». «Il futuro della pesca è appeso a un filo» aggiunge Natarelli. «I figli dei pescatori non vogliono più fare questo lavoro. È durissimo, stressante e oggi insostenibile anche economicamente. L’unica speranza per alcune marinerie sono i lavoratori immigrati, come gli indonesiani».

Infine, la cultura gastronomica: un tempo ricca di piatti poveri e saporiti, oggi sempre più trascurata. In cucina, sia a casa sia nei ristoranti, si tende a preferire ormai canonici tipi di pesce (come salmone, tonno ad esempio) trascurando l’immenso patrimonio mediterraneo di pescato povero tirato su dai piccoli pescatori che non trova più mercato. «Questa carenza incide tantissimo – sottolinea sempre il fondatore dell’associazione – e il pesce povero andrebbe valorizzato, ma in Italia è mancata una vera campagna in questo senso. I fondi pubblici per la promozione vengono gestiti da chi non sa nemmeno se l’acqua di mare sia dolce o salata. L’ottanta per cento dei soldi si perde tra burocrazia e consulenze».

Anche Sandulli, da accademico, conferma la poca attenzione per alcune tipologie di pescato: «Andrebbe posta maggiore attenzione alle specie considerate povere, come il pesce azzurro. Reindirizzare il mercato su alici, sarde, sgombri, palamite potrebbe ridurre sprechi e pressioni su altre specie sovrasfruttate. Sono ingredienti locali, buoni, salutari, pescati da pescherecci locali».

Unsplash

Veniamo alle soluzioni. La più intuitiva sarebbe pescare di meno per non generare invenduto. Una soluzione che eviterebbe sprechi ma che conserva implicazioni economiche complesse. Vincenzo, pescatore, spiega: «Il nostro pesce è di qualità, ma i prezzi già oggi non reggono la concorrenza estera. Se ne pescassimo meno, non potremmo sostenere le famiglie».

Natarelli precisa: «Negli ultimi vent’anni lo sforzo di pesca in Italia è già diminuito di oltre il sessantacinque per cento. Dove c’erano cinquanta motopescherecci oggi ce ne sono dieci. Peschiamo tre giorni su sette, prima erano sei. Rispettiamo tutti i fermi pesca, ma da quattro anni i fondi previsti non arrivano più. Restiamo fermi quarantacinque giorni senza retribuzione».

Per Sandulli una via d’uscita possibile è il pescaturismo: «Trasformare l’attività in forme turistiche può essere una valida alternativa, meno impattante della pesca intensiva».

«Il pescaturismo è interessante – ribatte Natarelli – ma servono regole chiare. Alcuni possono portare otto persone, altri venti. Qualcuno riesce a dedicare l’intera giornata ai turisti, riducendo la pesca. Ma ci vogliono incentivi veri, non burocrazia».

Anche le specie aliene potrebbero diventare risorse per i pescatori locali, a patto che trovino un’adeguata distribuzione. «Alcune sono buone da mangiare – spiega Sandulli – come il granchio blu. Pescarle significherebbe contenerne la diffusione e ricavarne un guadagno».

Su questo Natarelli è scettico: «Il granchio blu è stato trasformato in una risorsa, ma solo mediaticamente. Sono arrivati carichi dalla Grecia e Tunisia spacciati per italiani. E se una start-up propone di esportarli pagandoli un euro al chilo, al pescatore ne restano cinquanta centesimi. A quel punto al pescatore conviene lasciarli in mare».

Poi c’è il paradosso del tonno rosso del Mediterraneo: abbondante, ma pescabile solo in quote limitate. «Negli anni si è riprodotto tanto – dice Natarelli – ma le autorizzazioni sono ferme e concentrate in poche mani. Così nei supermercati troviamo tonno pinna gialla del Pacifico, mentre quello locale – più buono – resta inutilizzato. Una follia burocratica tutta italiana».

Giovanni, figlio di pescatori veneziani, lancia un appello: «Servono misure economiche strutturali, come fu per il granchio blu». All’epoca, in Veneto ed Emilia-Romagna furono stanziati fondi straordinari. «Ma quello era un evento eccezionale» aggiunge Luca, altro pescatore. «Qui parliamo di una crisi continua. Serve sostegno anche per armatori e pescherie».

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Per Sandulli serve collaborazione: «La ricerca è fondamentale per supportare chi lavora nella filiera, ma anche il dialogo tra scienza, istituzioni e operatori è migliorato. Non è facile, ma accade sempre più spesso. Occorre perseverare».

«Anche noi – ammette Natarelli – abbiamo colpe. Facciamo tutti la stessa pesca e intasiamo il mercato. Il pesce che rigettiamo è perlopiù piccolo; l’invenduto lo regaliamo a ristoratori, case famiglia, parrocchie. Ma serve un coordinamento più ampio, nazionale, per non lasciare tutto alle iniziative locali».

Nel mare agitato della filiera ittica italiana, la voce dei pescatori si alza tra onde di silenzio e burocrazia. La sopravvivenza di un mestiere millenario non dipende solo dalla quantità di pesce nel Mediterraneo, ma da scelte politiche, culturali e di consumo. Serve trasparenza, tutela, visione. Altrimenti, a naufragare, non saranno solo le barche, ma un pezzo identitario della nostra civiltà gastronomica.

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