Vietato protestare in carcere: così il governo Meloni abolisce la Costituzione in cella

Aprile 26, 2025 - 16:00
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Vietato protestare in carcere: così il governo Meloni abolisce la Costituzione in cella

Sovraffollamento, morti per suicidio e per malattia, aumento del disagio fisico e psichico, sembrano oramai rappresentare l’unico orizzonte possibile e il solo irreversibile futuro del nostro sistema carcerario. Ma anziché cogliere in questa drammatica realtà la necessità ed urgenza di provvedimenti che riducano al più presto la pressione del sovraffollamento e lo squilibrio oramai intollerabile fra risorse disponibili e numero di detenuti, si avverte la sola insopprimibile pulsione di dotare il carcere di nuovi strumenti repressivi. Poiché il Parlamento è dotato di regole “farraginose”, il reato di “rivolta” viene riproposto con un Decreto Legge di immediata entrata in vigore.

A volte le norme penali, al di là della loro oggettiva violenza, fatta di pene spropositate e di equivalenze irrazionali (i “centri di trattenimento” – dove non vi sono autori di reati – equiparati al carcere), possiedono un formidabile contenuto simbolico. Il nuovo reato di “rivolta all’interno di un istituto penitenziario” trasforma infatti il carcere in un luogo separato dal mondo ordinario. Un luogo diverso all’interno del quale non valgono le stesse regole della società civile. Una realtà distopica nella quale sono diversi i limiti fra il lecito e l’illecito, nella quale condotte inoffensive divengono reato. Il “carcerato” viene così trasposto in una dimensione altra che non è la stessa degli altri esseri umani. Valgono regole differenti e il reato è definito da circostanze del tutto prive di determinatezza da valutare di volta in volta. Il reato sussiste o non sussiste in base al “numero” dei disobbedienti a al “contesto” della disobbedienza.

Per stabilire se la disobbedienza pacifica integri una “rivolta” valgono principi solo in apparenza ragionevoli: occorre infatti stabilire se con la quella disobbedienza si impediscono atti necessari alla gestione di “ordine” e “sicurezza”. Per comprendere quanto sia poco ragionevole un simile criterio basta considerare come all’interno di un carcere ogni atto serve inevitabilmente a tali fini. Ogni protesta pacifica, viene così criminalizzata e dunque irragionevolmente parificata alla protesta violenta. Parificata anche quanto alla pena, in barba ad ogni principio costituzionale di ragionevolezza e di proporzionalità. Si tratta di norme dal contenuto al tempo stesso intimidativo ed ideologico, che hanno come scopo, non solo quello di fornire un più duttile e pervasivo strumento di repressione, ma anche quello di modificare la percezione stessa del concetto di carcere. Dentro e fuori le sue mura. Trasformandolo in un luogo di sepoltura di condannati, estraneo del tutto alla società civile. Ogni spazio di vita all’interno del carcere viene così progressivamente ridotto, non solo nel nome dell’ordine e della sicurezza, ma anche nel segno di più brutali bilanciamenti.

La presidente della commissione Antimafia Chiara Colosimo crede che sia “necessaria una stretta sui video collegamenti e sulle videochiamate” perchè “servono soltanto per aiutare i parenti dei reclusi e non la polizia penitenziaria”. Non solo si dimentica quale fondamentale sostegno al mantenimento di una dignitosa serenità dei detenuti sia il contatto, anche solo visivo, con i familiari, mogli e figli minori spesso nella oggettiva impossibilità di avere incontri in presenza. Ma si incentiva così, con queste pericolose e indebite contrapposizioni, l’idea che detenuti e detenenti non possano collaborare al medesimo fine della risocializzazione, ma che debbano essere necessariamente posti in conflitto fra loro, dimenticando che il motto dell’arma della penitenziaria è: “mantenere viva la speranza è il nostro compito”, non “spegnere ogni speranza”. Sembra, tuttavia, che sia questo il sentimento più diffuso quando si pensa al carcere. Quello di rendere la pena il più afflittiva possibile, trasformando il carcere, da strumento di riabilitazione, in una pura macchina di retribuzione e di repressione. Il carcere così ridotto, non serve più a migliorare gli uomini, a ridurre il fenomeno della recidiva, ad aumentare la sicurezza, ma solo a consolare la collettività, ad aumentarne, ingannandola, la sicurezza percepita.

*Presidente dell’Unione Camere Penali

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Redazione Eventi e News Redazione Eventi e News in Italia