La desalinizzazione non risolve la crisi dell’acqua potabile, la sposta

Viviamo in un’epoca in cui si riesce a far atterrare razzi autonomamente, a creare intelligenze artificiali conversazionali e a mappare il genoma umano in poche ore. Ma l’umanità è ancora in ginocchio davanti a una domanda elementare: dove trovare abbastanza acqua da bere. In un mondo sempre più caldo e sempre più secco a causa del cambiamento climatico, l’acqua potabile è diventata una questione geopolitica. Una soluzione, come sempre, potrebbe darla la tecnologia. La desalinizzazione, ovvero la rimozione del sale dall’acqua marina, è la soluzione che anche un bambini potrebbe trovare per compensare il calo delle fonti dolci naturali. Ma ha i suoi costi.
Come spiega il Financial Times in un interessante approfondimento, negli ultimi anni, la tecnologia della desalinizzazione si è evoluta sensibilmente. Oggi, la maggior parte degli impianti utilizza il sistema dell’osmosi inversa, che ha progressivamente sostituito la distillazione termica, più obsoleta e dispendiosa. I due metodi si basano su principi fisici diversi. La distillazione termica prevede l’evaporazione dell’acqua marina tramite riscaldamento: il vapore acqueo viene separato dal sale e successivamente condensato.
È un processo energivoro, tipicamente alimentato da fonti fossili, e ancora diffuso soprattutto negli impianti del Golfo con infrastrutture più datate. L’osmosi inversa, invece, sfrutta membrane semipermeabili che, sotto pressione, separano l’acqua dolce dai sali disciolti. Richiede meno energia, produce meno emissioni e ha costi di esercizio inferiori. Questa tecnologia è oggi lo standard nei nuovi impianti, ed è oggetto di continui investimenti per migliorarne l’efficienza e la durata.
Alcuni dei nuovi impianti riescono a produrre acqua potabile a meno di quaranta centesimi di dollaro al metro cubo, come nel caso dell’impianto israeliano di Sorek B o del progetto Hassyan a Dubai. Ma questi sono casi di eccellenza tecnologica e finanziaria. Anche la California ha investito su riciclo, stoccaggio e modernizzazione infrastrutturale. In Europa, la Commissione ha finanziato con quattrocento milioni di euro progetti idrici in Spagna. In Grecia è stato annunciato un piano per fondere oltre duecento gestori locali e rafforzare il coordinamento delle risorse. In molti altri luoghi, la desalinizzazione resta un processo oneroso e in alcuni contesti difficilmente sostenibile.
Cipro è un caso emblematico. Dopo tre anni di siccità, i bacini dell’isola sono al ventuno per cento della capacità e il governo è stato costretto a ridurre del cinquanta per cento le assegnazioni idriche all’agricoltura. Alcune colture stagionali, come pomodori e angurie, verranno importate per la prima volta. La strategia di emergenza si fonda su un utilizzo continuativo degli impianti di desalinizzazione già esistenti, che finora erano attivati solo in caso di necessità. Ma l’acqua prodotta costa circa 1,50 euro al metro cubo, quasi cinque volte tanto rispetto a quanto spende Dubai. Il motivo è duplice: l’elevata dipendenza da combustibili fossili per alimentare gli impianti e l’assenza di una rete elettrica sufficientemente flessibile per integrare fonti rinnovabili in modo stabile.
L’area del Golfo, oggi, rappresenta il cuore operativo della desalinizzazione globale. Circa il settanta per cento della capacità mondiale si concentra tra Arabia Saudita, Emirati, Oman e Kuwait. L’Arabia Saudita è il primo produttore assoluto: impianti come Ras al-Khair garantiscono acqua potabile a oltre un milione di persone.
Ma anche qui non mancano le criticità. Ogni metro cubo di acqua dolce prodotto genera, come scarto, quasi mezzo metro cubo di salamoia ipersalina. Nel mondo, si stima che gli impianti ne producano circa centocinquanta milioni di metri cubi al giorno. Quando questa salamoia viene scaricata in mare, può alterare la salinità e la temperatura delle acque costiere, con effetti potenzialmente dannosi su biodiversità e catene alimentari marine.
Per affrontare il problema, in Arabia Saudita si stanno sperimentando soluzioni di recupero dei minerali: il laboratorio guidato da Zhiping Lai alla King Abdullah University sta studiando come estrarre litio e potassio dalla salamoia, trasformando un rifiuto in una potenziale risorsa. I primi risultati sono stati pubblicati su Science e una start-up è già in fase di incubazione.
Ma c’è anche un altro livello di complessità, meno visibile. Lo ha chiarito bene l’astrofisico Neil deGrasse Tyson durante una vecchia puntata del podcast di Joe Rogan: alterare le proporzioni tra acqua dolce e salata negli oceani non è privo di conseguenze sistemiche: «Se si cambia la salinità degli strati superficiali, si rischia di modificare la circolazione verticale degli oceani. E questo può portare all’estinzione di specie marine, alla destabilizzazione del clima e a fenomeni meteorologici imprevedibili». Anche l’oceano ha un equilibrio, e non può essere trasformato in una gigantesca cisterna senza effetti collaterali.
Nonostante le sue promesse, la desalinizzazione non può essere considerata una risposta universale. Secondo l’Ispi, rappresenta una misura utile soprattutto in aree urbane costiere, dove la vicinanza al mare e le economie di scala rendono il processo più accessibile. Ma resta una tecnologia ad alta intensità energetica, i cui benefici ambientali dipendono direttamente dalla fonte di energia utilizzata. Se alimentata da gas o petrolio, la desalinizzazione può contribuire alle emissioni globali di CO₂, aggravando la crisi climatica stessa cui cerca di rispondere. Inoltre, la realizzazione e gestione degli impianti richiede capacità tecnica e risorse economiche non sempre disponibili nei paesi più vulnerabili.
Insomma: la desalinizzazione, in sé, non è una panacea. Funziona quando è parte di un pacchetto più ampio: recupero delle perdite, riduzione dei consumi, educazione degli utenti, uso efficiente dell’energia. Il vero ostacolo, però, resta spesso politico. Molti paesi adottano questa tecnologia solo in risposta a crisi acute, come siccità o collassi delle reti. Manca una pianificazione preventiva e una governance capace di integrare la desalinizzazione in una strategia di lungo periodo.
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