Il mito della mela sostenibile e la realtà delle scelte agricole

Agosto 18, 2025 - 03:30
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Il mito della mela sostenibile e la realtà delle scelte agricole

Questo è un articolo del numero di Linkiesta Magazine Climate Forward ordinabile qui.

Che cosa c’è di più sano di una mela? Questo è uno dei tanti falsi miti della nostra alimentazione, ed è la dimostrazione pratica di come – quando parliamo di agricoltura – le nostre certezze si sgretolino più facilmente di quanto immaginiamo. Se possiamo dire, in generale, che un cibo vegetale, fresco e locale è l’ideale per pesare il giusto sull’ambiente e sul clima, questo però non è sempre vero. Lo stesso alimento, in momenti diversi del suo ciclo di «vita», può cambiare radicalmente la sua impronta carbonica.

Arriviamo addirittura a dei veri e propri paradossi, come ci dimostra, appunto, l’esempio della mela. La raccolta di questo frutto avviene in una stagione precisa dell’anno, ma noi lo mangiamo sempre, in tutti i mesi. Quando le mele vengono raccolte localmente e trasportate dai meleti regionali ai supermercati o ai mercati settimanali, la loro impronta di carbonio rimane accettabile.

Ma non rimane tale a lungo: quelle che non vengono vendute direttamente dopo la raccolta vengono conservate in celle frigorifere fino a nuovo ordine e, a volte, restano lì per molti mesi. In questo modo, l’impatto delle mele domestiche peggiora continuamente dopo il periodo del raccolto. Arriva un momento in cui è più conveniente importarle da altri Paesi, per avere un impatto inferiore rispetto al consumo del frutto che abbiamo conservato.

E per il bene del clima, è sempre meglio comprare biologico? Purtroppo, neppure questo assunto è vero. La frase che dovremmo abituarci a ripetere quando trattiamo questi argomenti è: dipende. Dipende dal clima generale, dal tipo di suolo, ma anche dal tipo di impianto. Dipende da quanto vogliamo spendere e dipende da dove siamo nel mondo: perché, se per l’Occidente evoluto è possibile fare discorsi di riduzione della produzione, e anche di riduzione calorica media, per altri continenti più fragili a livello alimentare optare per una produzione biologica significa non avere sufficiente cibo per nutrire tutti.

Essere sostenibili in agricoltura è un affare strettamente collegato al reddito e a quanto siamo disposti a spendere, o – faremmo meglio a dire – «investire» nel nostro nutrimento.

Secondo uno studio pubblicato nel duemilaventuno su Nature Food, l’intera filiera del sistema alimentare è responsabile del trentaquattro per cento delle emissioni globali. Ridurre l’impatto climatico del cibo è quindi fondamentale per limitare l’ulteriore riscaldamento del pianeta. Siamo di fronte al problema più complesso mai affrontato dall’uomo: capire che cosa fare adesso, oggi, per contrastare il climate change è un esercizio che richiede una tale massa di informazioni da rendere impossibile ogni certezza.

Occorre quindi una visione olistica che non è altro che un modo di guardare il mondo nel modo più possibile oggettivo e che, però, si occupi del tutto e non difenda strenuamente solo una parte della verità che, per definizione, è più complessa dei dogmi.

Il cibo è un nostro bisogno primario, e la crescita della popolazione globale è un dato incontrovertibile: siamo sulla via dei dieci miliardi di esseri umani da sfamare sulla Terra. Ma i terreni che possono produrre cibo sono sempre meno, per colpa dell’erosione, della desertificazione e della riduzione delle produzioni. Al bisogno dell’uomo di avere sempre più cibo disponibile si contrappone la sostenibilità di questa necessità; ma il biologico, pur essendo un grande sogno, non è sostenibile per nutrire il pianeta. 

Usando i criteri del bio, infatti, si produce il cinquanta per cento in meno di quanto si potrebbe fare usando prodotti sistemici. Bisognerebbe quindi riflettere in questi termini: se coltiverò bio sarò sostenibile per il pianeta, ma non avrò abbastanza terreno per coltivare tutto il cibo che serve a nutrirci. Per ricavare altri terreni sarò quindi costretto a disboscare e avrò danneggiato ancora di più il bilanciamento totale della mia impronta sugli ecosistemi.

Conciliare un sempre maggiore fabbisogno di cibo e la sostenibilità per produrlo è la vera sfida del futuro: produrre quanto produciamo oggi, ma con meno danni per la Terra, è il nostro passaporto per l’unico futuro possibile. È come se il terreno fosse il nostro capitale e i suoi frutti fossero i nostri interessi: se eroderò il primo, verranno meno anche i secondi. 

Per questo, la crescita agricola deve essere perseguita rispettando l’ambiente e il contesto sociale: sostenere l’agricoltura, pagando il giusto chi si occupa del primo anello della filiera, non vuol dire soltanto preservare il terreno, ma anche valorizzare il contesto in cui quel terreno si trova – evitando lo spopolamento e restituendo ai residenti la possibilità di vivere di agricoltura. Questo avrà come conseguenza diretta un miglioramento del luogo, che verrà protetto e potrebbe diventare (o tornare a essere) un luogo di interesse turistico, con un’ulteriore ricaduta positiva sul contesto.

Gli aiuti statali o europei possono fare la differenza? A volte sì, ma soltanto se sono fatti con intelligenza e visione. Se invece impongono una coltura e ne eliminano altre, il rischio di fare ancora più danni all’ambiente è dietro l’angolo. Scegliere mandorle invece di olio per i terreni pugliesi non è solo una questione di prodotto, ma di progetto a lungo termine.

È una decisione che darà al territorio un’impronta differente e solo con il tempo si capirà se quella zona potrà davvero essere vocata per la coltura che è stata imposta da scelte indipendenti rispetto alle caratteristiche intrinseche di quel luogo. Può andar bene, può andar male: lo scopriremo solo molti anni dopo che quella scelta è stata fatta. È per questo che scegliere una mela rispetto a un’altra, un olio rispetto a un altro, è un’attività molto più politica di quanto pensiamo.

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Redazione Redazione Eventi e News