L’antisionismo ha reso il genocidio un’arma retorica senza fondamento storico

Agosto 5, 2025 - 09:00
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L’antisionismo ha reso il genocidio un’arma retorica senza fondamento storico

La replica di Liliana Segre alla confessione di David Grossman sulla qualificazione di genocidio data alla tragedia di Gaza ha scatenato una valanga di critiche e di offese su una delle poche persone che il genocidio lo ha visto da vicino. Liliana era anche lei uno dei bambini ad Auschwitz, come quelli raccontati da Primo Levi nel suo indimenticabile “Se questo è un uomo”, che le madri preparavano alla morte mandandoli a dormire presto e sollevandoli, con loro ignara gioia, dall’obbligo dei compiti di scuola per l’indomani in cui li aspettava la fine della loro breve vita.

Forse è una fatica inutile e magari improba, ma si deve pur provare a rifarsi alla ragione del diritto anche in dispute dove ragione e diritto vengono accantonati. Le parole sono pietre e, nel dibattito sulle leggi, lo sono ancora di più: quando un termine o un evento rientra in una norma, la regola è che quest’ultima, nel descriverlo, debba essere sufficientemente determinata e tassativa, chiara, esplicita e tale da non ingenerare confusione con casi simili, comparabili ma diversi.

Aiuta alla bisogna un testo piccolo e prezioso scritto una ventina d’anni fa dallo storico francese e docente Pierre Brunetau, pubblicato da il Mulino, “Il secolo dei genocidi”, curato e tradotto da Marcello e Alessandra Flores d’Arcais. Scrive nella prefazione Flores, uno degli studiosi italiani più accurati sul fenomeno, che genocidio «non è la violenza di massa quando raggiunge un numero elevato di vittime», neanche se esso ammonta a milioni di morti, come avvenuto ad esempio in Africa nel Congo e nel Darfour oppure nella Cambogia di Pol Pot. Secondo lo storico, i genocidi dal secolo scorso in poi sono legati alla nascita del concetto di Stati-nazione e «da due caratteristiche che hanno sempre accompagnato i genocidi: intenzionalità e sistematicità».

Brunetau ripercorre nel suo volume la nascita del termine nel dopoguerra e soprattutto della legislazione che lo ha incluso e definito: fu ideato nel 1945 da un ebreo americano di origine polacca, Raphael Lemkin, professore di diritto internazionale, in un libro «Axis Rule in Occupied Europe», che raccontava la pianificazione nazista dello sterminio degli ebrei.

Essa fu precisata e attivata in un incontro tenuto a Wannsee nel 1942 da quindici esponenti del regime hitleriano guidati da Reinhard Heydrich, il boia di Praga. Doveva risolvere il grave problema economico che gravava sul Reich, oberato dal peso insostenibile di milioni e milioni di giudei, tra originari tedeschi e acquisiti dalle conquiste militari che i ghetti ormai non contenevano più.

Due le opzioni: un più umano ma dispendioso piano di sterilizzazione di massa degli ebrei oppure la pianificazione dello sterminio totale grazie ai grandi progressi della scienza nel campo dell’uso dei gas. Si arrivò a calcolare che potevano essere liquidati, nel giro di poco tempo, lavorando a pieno regime, venti milioni di giudei. Una vera e propria rivoluzione darwiniana che avrebbe reso l’umanità migliore. Questo per capire i termini della questione.

Durante la prima sessione dell’Assemblea delle Nazioni Unite, l’11 dicembre 1946, la «risoluzione 96» definisce il genocidio «una negazione del diritto alla vita di gruppi umani razziali, religiosi, politici e altri che siano stati distrutti tutti o in parte». Su esplicita richiesta dell’Unione Sovietica venne tolto il riferimento ai gruppi politici, prudenzialmente, viste le massicce purghe staliniane.

È interessante notare che, quando nel 1948 venne varata la Convenzione per la prevenzione e repressione del delitto di genocidio, essa comprendeva tutti gli «atti commessi con l’intenzione di distruggere in tutto o in parte un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso». Tra essi era specificamente compreso «il trasferimento forzato di bambini da un gruppo a un altro». Esattamente come avviene in Ucraina, senza che le anime belle e indignate della sinistra ‹bacchettona› abbiano mai evocato il genocidio.

Brunetau avverte che «il grado di intenzionalità è una variabile decisiva, poiché è proprio questa intenzione a distinguere il genocidio dal massacro in tempo di guerra o in un’insurrezione, caratterizzato da una violenza distruttiva cieca, per quanto essa possa assumere le forme specifiche del genocidio». Precisa altresì che la pianificazione di un programma di cancellazione di un gruppo lascia necessariamente prove documentali, esattamente come la conferenza di Wannsee, di cui è stato rinvenuto il protocollo. Ne deriva che l’uso e la concreta applicazione della definizione di genocidio lascia spazio a diversità di interpretazioni.

Come ha sostenuto Flores: «tribunali internazionali hanno riconosciuto come tali quelli avvenuti in Ruanda e Cambogia, insieme al massacro di Srebrenica in Bosnia: responsabilità personali, mai quelle di uno Stato. Tribunali nazionali hanno poi riconosciuto come genocidi fatti avvenuti nel loro Paese: l’Argentina ha definito così l’orrore dei desaparecidos, sequestrati e fatti scomparire. Dal punto di vista storico, prima dell’Olocausto ci fu certo il genocidio degli armeni».

Non sono stati riconosciuti come tali forme estese di sterminio come la carestia in Ucraina dal 1932 al 1934 (Holodomor), raccontata da Anne Applebaum e nel bellissimo film di Agnieszka Holland L’ombra di Stalin, di cui abbiamo già parlato, che ricorda il coraggio del cronista Gareth Jones, unico a denunciare l’infamia e isolato per questo dalla sinistra dell’epoca, tesa a esaltare il comunismo sovietico. Lo stesso silenzio ha accolto il film oggi.

E genocidi non sono stati definiti i massacri africani con i gas in Etiopia e in Libia degli italiani, la rivoluzione culturale di Mao che commosse all’epoca Dario Fo, Franca Rame e i maoisti de noantri reduci dalla Cina, la tragedia degli italiani d’Istria sepolti vivi come tali nelle foibe.

Resta da chiedersi il perché di tale doppio binario adottato da una certa sinistra nel valutare lucidamente la storia. La risposta migliore mi sembra quella contenuta in un interessante volume di Alessandra Tarquini, “La sinistra italiana e gli ebrei. Socialismo, sionismo e antisemitismo dal 1892 al 1992” (Il Mulino, 2019).

L’autrice denuncia l’inadeguatezza a sinistra a comprendere l’orrore dell’Olocausto e la nascita di Israele e rileva che «nella maggior parte dei casi, socialisti e comunisti, da sempre assimilazionisti e antisionisti, sottovalutarono la realtà dei Lager alla fine degli anni Trenta, nel dopoguerra elaborarono un giudizio sull’antisemitismo all’interno di categorie inadatte a comprendere la Shoah, parteciparono a quella rimozione collettiva per cui fino agli anni Sessanta il dibattito pubblico italiano non si occupò di sterminio degli ebrei e, quando iniziò a discuterne, lo fecero in modi decisamente riduttivi e superficiali».

Il punto è sempre lo stesso ed ha poco a che fare con l’antisemitismo della destra, riguarda piuttosto l’odio per l’Occidente, di cui lo Stato d’Israele è un simbolo – in ciò che di nobile ha realizzato come nelle sue gravi contraddizioni e nei conflitti.

Quando si è parlato di stermini di massa (Sebrenica, i desaparecidos, i killing fields cambogiani), si sono attribuiti a singoli individui o gruppi di potere. Con Israele non è così: si cerca di rimuovere il tabù dell’Olocausto per poter liberamente manifestare l’odio verso un popolo e l’Occidente che lo difende. I termini della questione sono questi, esattamente questi.

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