Billy Joel, Carrie Bradshaw, e la generazione che non vuole diventare adulta

Agosto 18, 2025 - 03:30
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Billy Joel, Carrie Bradshaw, e la generazione che non vuole diventare adulta

Non posso usare gli esempi che vorrei, per dire come si riconoscono quelle incapaci a scrivere di costume. (È declinato al femminile perché il costume lo scrivono le donne, così come l’influencer marketing lo fanno le donne, o al massimo i busoni, ma in minore: i maschi non sono in grado di occuparsi di cose che richiedano spirito d’osservazione).

Non posso usare gli esempi che vorrei, abbondanti e recenti, perché in Italia ci conosciamo tutti e più la gente non è capace di fare qualcosa più si offende se glielo dici, e io non ho nessuna intenzione di passare quel che resta d’agosto a baloccarmi con l’impermalimento di Tizia o Caia che si riconoscono.

Dirò quindi: una cosa che hanno in comune tutti i tentativi falliti di costruire un racconto di costume è che prima o poi usano tutti il cliché della donna sola al ristorante. Del coraggio della donna sola al ristorante. Del dramma della donna sola al ristorante. Della donna sola al ristorante che sfida le convenzioni della società.

L’ultima puntata di “And just like that”, che sta su Sky e su Now come tutte le altre e che è l’ultima nel senso della scorsa ma anche nel senso che non ce ne saranno mai più altre, grazie al cielo l’hanno chiuso, l’ultima puntata inizia con Carrie Bradshaw al ristorante da sola. In un ristorante in cui le siedono davanti un pupazzo perché lei non debba affrontare l’umiliazione di non avere commensali.

Ora. Carrie Bradshaw è una scrittrice scarsissima, e questo è stato chiaro in una puntata di questa stagione in cui ha dettato al telefono un messaggio per Aidan: metteva due punti esclamativi alla fine d’ogni frase. E ancora più chiaro quando l’inquilino inglese leggeva a voce alta pezzi del suo manoscritto, le frasi che si potrebbero trovare in un Harmony scritto da una che si percepisce Joan Didion: scarsezza velleitaria, la più grave delle scarsezze. Solo una scrittrice scarsissima non pranza da sola appena può, onde origliare le conversazioni agli altri tavoli. Solo una scrittrice scarsissima pensa che, nel 2025, pranzare da sole sia un tema.

(Mangio da sola forse duecento volte l’anno, ho mangiato da sola in qualunque tipo di ristorante d’ogni città del pianeta: nessuno, ma proprio nessuno, se n’è mai accorto, mi ha mai guardata più di mezzo secondo o detto qualcosa. Nessun avventore, nessun cameriere, nessuno. Quando lo dico, le donne determinate a fare le vittime mi dicono: eh, ma è perché di te hanno paura. In quello e in tutti gli altri casi, il mio consiglio è sempre e solo: procuratevi un carattere, è più utile d’un marito).

Naturalmente il punto non è che Carrie Bradshaw sia una scrittrice scarsissima. Il punto è che Carrie Bradshaw è una cretina. Solo che la gente della mia età ha un problema. Non abbiamo ancora fatto pace con l’idea che fossimo dei cretini a quindici anni: possiamo mai ammettere che eravamo scemi a trenta? Certo che no. E quindi, siccome a trent’anni guardavamo con voluttà un telefilm che aveva per protagonista una cretina, a volte copiandole persino le scarpe e le borsette, adesso non siamo pronte a riconoscerlo, perché a quella cretina che fummo siamo affezionate (io no, io se incontro la me stessa trentenne cambio marciapiede).

Con le dodici puntate di questa ultima stagione è andata così. Le prime sei, Hbo le ha mandate ai potenziali recensori prima che cominciasse la messinonda. È stato quando ho scritto che (quella cretina di) Carrie camminava coi tacchi in casa. Le successive sono arrivate una ogni lunedì della settimana in cui poi sarebbero andate in onda. E io ogni lunedì la guardavo, bestemmiando, entro massimo due ore dalla ricezione.

Un’amica a un certo punto mi ha chiesto perché, un po’ come Charles Swann quando si domanda perché abbia perso tutto quel tempo con Odette che neppure era il suo tipo. Solo che Swann se lo chiedeva da solo, a me invece il grande perché l’ha dovuto formulare un’altra. E non ho saputo rispondere altro che: perché prima la guardo e prima finisce, questa porcheria.

Ma avrei potuto non guardarla, mica era obbligatoria, mica sono una di quelle che guardano tutta la tv che c’è. Anzi: non guardo quasi niente, detesto le cose a puntate, l’altro giorno pur di non guardare la versione nuova a puntate ho rivisto il vecchio “Gattopardo” (i cui costumi di scena mi sono sembrati più inspiegabili di quelli di Carrie Bradshaw, ma non divaghiamo). Eppure.

Forse avevo bisogno di chiudere coi miei trent’anni, forse di farmi gli anticorpi alla ridicolaggine di quelle che a sessanta si percepiscono ancora trentenni coi dilemmi amorosi e le scarpe scomode. Forse la risposta sta in un’altra cosa che andrà su Sky non so bene quando. S’intitola “And so it goes”: è un documentario, lungo come due gattopardi, su Billy Joel.

L’ho guardato pensando alla cosa che scrivevo l’altro giorno: che Billy Joel è stato un’avanguardia di quelli dei quali le opere ci interessano meno delle vite. Da ragazzina mi piaceva il video di “Uptown girl” perché leggevo i rotocalchi e sapevo che Christie Brinkley era davvero la ragazza dei quartieri alti, la troppo figa per lui, che davvero era riuscito a sposarsi. Ma delle canzoni non m’importava granché. Tranne che di una. Che sembrava una canzone di Tom Waits. Che sembrava una canzone di Guccini.

«Sono le nove d’un sabato sera, arrivano i clienti abituali, di fianco a me è seduto un vecchio che fa l’amore col suo gin and tonic. Mi dice: Figliolo, mi suoneresti un ricordo? Non sono sicuro di come facesse, ma era triste, ed era tenera, e la sapevo tutta quando ero vestito da giovane». Quando scrive “Piano man”, Billy Joel ha ventiquattro anni: gli stessi che ha Tom Waits quando scrive “I hope that I don’t fall in love with you”. Fanno persino più impressione dei trentaquattro che ha Francesco Guccini quando scrive “Canzone delle osterie di fuori porta”, o che ha Bruce Springsteen quando esce “Glory days”.

Guardavo il documentario e ogni tanto lo mettevo in pausa e tornavo ad ascoltare quella canzone in cui non c’è solo Bill cui chiedono di suonare un ricordo, c’è John, il barista, che è convinto che potrebbe essere una star del cinema e invece è inchiodato al bar, e c’è un’umanità che si ubriaca di solitudine in quel bar perché è sempre meglio che bere da soli, e che lo va a sentir suonare «per dimenticarsi della vita per un po’».

E poi è successo qualcosa, nei venticinque anni tra “Piano man” e “Sex and the city”, tra quando i ventenni o i trentenni scrivevano le canzoni di disillusione che avremmo capito a cinquanta, e quando le sciamannate sessantenni hanno cominciato a pretendere di potersi comportare da quindicenni. È successo che essere adulti ha smesso d’essere un’ambizione, e ha iniziato a essere un rimosso. È successa l’infantilizzazione di quelli di tutte le età, e pazienza per gli esseri umani, ma il guaio è che i film e le canzoni sono diventati una schifezza per dodicenni perpetue. Di quelle che in casa tengono i tacchi della mamma.

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