L’ideologia fascista alla base delle richieste di Putin in Alaska

Agosto 15, 2025 - 13:30
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L’ideologia fascista alla base delle richieste di Putin in Alaska

Questa sera tutto il mondo avrà gli occhi sul vertice in Alaska tra Donald Trump e Vladimir Putin. Il faccia a faccia tra due bugiardi patologici è l’evento più atteso dell’estate, ma è destinato a produrre poco o nulla sul piano politico. L’unica certezza è lo spettacolo: la base militare di Elmendorf-Richardson diventa teatro di due leader gonfi di ego, boria e culto della personalità. Entrambi vogliono mostrarsi forti e avere la meglio sull’avversario.

Sul piano comunicativo, i due leader si somigliano. Trump ha costruito il suo successo politico cavalcando vizi e distorsioni della comunicazione iperbolica nell’era dei social. Putin, da prima di lui, ha mostrato di saper fare della spettacolarizzazione della politica un elemento centrale della sua propaganda. «Il grande errore di Trump è aver offerto a Putin una piattaforma di dialogo che li metterà sullo stesso livello, concedendo a Putin la possibilità di strumentalizzare immagini che faranno il giro del mondo per giorni», dice a Linkiesta Ian Garner, storico e giornalista da sempre attento alle evoluzioni della comunicazione bellicista sovietica e russa.

Di propaganda, retorica nazionalista e tecniche di comunicazione della Russia, Garner ha scritto nel suo ultimo libro “Russia and Modern Fascism” (ibidem Press) – curato con Taras Kuzio, docente di Scienze Politiche all’Università nazionale accademia Mohyla di Kyjiv – pubblicato la settimana scorsa. È una raccolta di brevi saggi firmati dai principali esperti di fascismo russo, ognuno con un contributo verticale e tematico, uno studio inedito sulla Russia moderna.

Le strategie comunicative di Putin offrono un’anticipazione di quello che dirà, o non dirà, in Alaska. Di sicuro non accetterà la fine della guerra a condizioni anche solo vagamente accettabili per l’Ucraina. «Come tutti i regimi fascisti, la Russia putiniana ha bisogno della guerra per definirsi, e questa è la continuità più preoccupante tra fascismi del passato e del presente. Per venticinque anni Putin ha giocato sull’idea che la Russia ha bisogno della guerra, e da essa trae una sorta di energia spirituale», dice Garner. Se l’invasione su vasta scala finisse domani, verrebbe meno un elemento centrale della struttura di potere putiniana.

Il fascismo moderno della Russia ha bisogno del conflitto violento per sostanziarsi. La guerra come scopo. L’invasione dell’Ucraina è la sublimazione di questa necessità. Per la Russia non esiste uno Stato ucraino, non può esistere un’Ucraina indipendente. «La guerra assume una dimensione purificatrice, perché per loro gli ucraini sono russi», dice Garner. «Il Cremlino sostiene che dal 1991, con la caduta dell’Urss e l’indipendenza di Kyjiv, un pezzo di Russia si sia infettato di nazionalismo occidentale capace di corrompere l’intera nazione. Così ogni atrocità, come a Mariupol, si giustifica con l’idea di purificare anima e territorio dei russi».

La città di Mariupol è protagonista di un capitolo superbo scritto a quattro mani da Garner e Kuzio. È stata la prima grande città a subire il trattamento brutale dell’armata russa nel 2022. L’ottantacinque per cento delle abitazioni è stato distrutto. Asili, ospedali, scuole, palazzi istituzionali, tutto raso al suolo. È stata fatta terra bruciata, mentre il conto dei civili è incerto: la stima più prudente dice diecimila morti, ma potrebbero essere molti di più.

«Da un lato c’è la distruzione totale, dall’altro c’è il tentativo di ricostruzione con palazzi nuovi, giganteschi, con nuovi parchi e nuove strutture», racconta Garner. È il tentativo, del regime putiniano, di creare un luogo di rinascita russa: invadendo e distruggendo l’Ucraina, Mosca sta cercando di creare un posto totalmente russo, non più “infettato” dal modo di vivere occidentale o ucraino. Oggi a Mariupol c’è una strana idea di libertà, una vita distopica sotto l’ombrello del Cremlino. Make Mariupol Great Again, ma sui cadaveri degli ucraini.

«È un approccio estremamente fascista», spiega Garner. «Il modo in cui la Mariupol occupata viene descritta dai russi fa ripensare all’Italia dei futuristi negli anni Venti, tutto moltiplicato da una comunicazione estremizzata dalla velocità dei social media».

In “Russia and Modern Fascism” c’è un’introduzione lunghissima su cosa sia il fascismo, su come si può traslare dal ventesimo al ventunesimo secolo, e come può viaggiare nello spazio, dalla Spagna franchista all’Italia di Mussolini, dal Portogallo di Salazar alla Grecia dei colonnelli e all’Argentina peronista, per arrivare alla moderna Russia putiniana.

“Fascismo” è una parola difficile da connotare, gli accademici hanno trovato decine di definizioni diverse (nel libro, il saggio di Alexander Motyl affronta proprio le numerose varianti del termine). Forse aveva ragione Umberto Eco a descriverlo come un affastellarsi di caratteristiche liquide, flessibili – il culto della tradizione, il rifiuto del modernismo, la paura delle differenze – in quello che definisce “Ur-Fascismo”.

Da quando Vladimir Putin ha preso il potere nel 2000, la Federazione Russa ha attraversato tre momenti critici sulla strada verso la dittatura e il fascismo. Il primo si è verificato a metà degli anni Duemila, quando i nazionalisti russi hanno reagito duramente a quella che percepivano come la fomentata rivoluzioni colorate da parte di Washington in Georgia – poi di nuovo in Ucraina.

Il secondo momento si è verificato nel 2012, quando Putin è tornato alla presidenza come colui che ha riunito le terre russe, che avrebbe unito i russi grandi, piccoli e bianchi (rispettivamente russi, ucraini e bielorussi) in un popolo panrusso all’interno di una Grande Russia. Qui l’autocrate ha ammantato l’ideologia di antioccidentalismo, tradizionalismo sociale e conservatorismo culturale. E come un «peronismo sotto steroidi» (citazione di Garner), il putinismo ha recuperato il nazionalismo imperialista promosso da Andrej Ždanov, l’ideologo di Iosif Stalin.

Il terzo momento critico è quello del passaggio dall’autoritarismo alla dittatura, quindi al fascismo. Dall’invasione del 2022, il regime di Putin ha adottato i tratti di ciò che gli storici definiscono Stato fascista: la Russia è passata da un regime autoritario collettivo a un regime dittatoriale con un leader il cui mandato è stato prorogato da modifiche costituzionali fino al 2036. Mosca ha soppresso ogni forma di indipendenza, ha creato più prigionieri politici di quanti non ne avesse l’Urss post-staliniana, Putin è stato perfino salutato come il nuovo imperator, un titolo usato nella Russia zarista a partire dal 1721.

«La trasformazione della Russia permea ogni aspetto della vita russa, online, nelle aule, nei libri di giurisprudenza e al Cremlino, e si manifesta nel comportamento della Russia nei confronti degli ucraini e dell’Ucraina occupata», scrivono Garner e Kuzio.

La Russia moderna ha ancora tanti punti di contatto anche con l’Unione Sovietica. Anzi, non c’è mai stata una rottura reale, totale, definitiva con il passato autoritario. Le forze democratiche – o democratizzanti – del periodo post-sovietico sono state subito sepolte negli anni Novanta, poi estinte con l’arrivo di Vladimir Putin.

AP/Lapresse

Un capitolo analizza l’uso demagogico della parola «fascista» nella propaganda putiniana. È scritto da due autrici polacche, Joanna Getka e Jolanta Darczewska (è l’ultimo contributo alla letteratura sul fascismo russo di Darczewska, morta l’11 luglio scorso). La definizione di cos’è fascista e cosa no è un altro elemento indispensabile per capire il terreno culturale e politico su cui poggia il regime di Putin.

Con la vittoria della Seconda guerra mondiale, la Russia si è autodeterminata come nazione antifascista. «Nella sua sfera retorica questo è un assunto non contestabile: la Russia è antifascista per definizione», dice Garner. «Nulla di ciò che fa la Russia può essere fascista, e chiunque la contrasti deve essere fascista. È il caso del sentimento indipendentista ucraino, visto come diverso e pericoloso, quindi fascista». È la realtà capovolta delle autocrazie. La logica e i fatti non contano, conta solo la grammatica costruita sull’ideologia.

Il linguaggio si lega poi a un altro pilastro del regime: il mito della vittoria militare. La Russia di Putin ha creato molti dogmi sulla guerra, tutti scolpiti nella pietra come principi religiosi. Proprio con l’aiuto della religione – cioè della Chiesa ortodossa russa – l’autocrate ha foraggiato il culto della morte.

Il saggio di Michał Wawrzonek spiega che accanto alla chiesa come istituzione religiosa, la propaganda di regime ha costruito una religione della guerra, fondata sul sacrificio e la morte: l’idea che i soldati russi morti al fronte siano esaltati, quasi santificati, nella Seconda guerra mondiale come oggi in Ucraina. «Questo artificio comunicativo è presente nelle comunicazioni del Cremlino, nelle scuole e in tv, ma anche nelle chiese, sulla bocca di preti e vescovi», aggiunge Garner.

È la propaganda pervasiva e permanente del regime. La Russia di Putin non lascia nulla al caso. I primi bersagli sono le generazioni più giovani. Garner lo ha raccontato anche nel libro “Figli di Putin”, pubblicato all’inizio del 2024 da Linkiesta Books. Attraverso un’efficace alternanza di hard e soft power, il regime putiniano ha iniettato nell’opinione pubblica del suo Paese una miscela tossica di nazionalismo, messianesimo, oltranzismo ortodosso, sovietismo d’accatto e diffidenza per l’Occidente.

Dopo due decenni di questa sbobba, la Russia che ha creato una nuova generazione di ragazzi zelantissimi nel celebrare il violento verbo putiniano. È la Generazione Z, ma la “Z” qui è il simbolo del bellicismo russo. «L’obiettivo della strategia giovanile del Cremlino è la militarizzazione della cittadinanza», dice Garner. «Significa, in modo molto diretto, preparare attivamente i bambini a servire nelle forze armate. Ma si vuole militarizzare anche la cultura, cioè far passare il messaggio che la guerra è normale, parte della vita quotidiana».

Questa forma di propaganda può manifestarsi, ad esempio, nella diffusione di video virali che mostrano bambini in abiti da combattimento. Oppure può tradursi nel far giocare i ragazzini a scuola su temi legati alla storia russa, alla guerra russa e all’importanza dell’esperienza e dell’identità russa.

La cultura militarista e bellicista del regime russo non si estinguerà domani, non basterà una stretta di mano con Trump o un tratto di penna, ammesso che si concorderà per una firma di qualsiasi tipo. Ancora più difficile è cercare di capire la prospettiva di lungo periodo della Russia putiniana. L’unica certezza al momento è biologica: tra dieci o quindici anni Putin non potrà più essere il leader del Cremlino, «ma non ci sono segnali che stia emergendo una Russia liberaldemocratica. Le forze liberali e democratiche in Russia sono estremamente deboli, e il massimo a cui possiamo aspirare è una Russia nazionalista che superi l’idea che la guerra sia essenziale», aggiunge Garner.

Guardando oltre l’attualità, resta la domanda più difficile: cosa accadrà dopo Putin? Quando il dittatore non ci sarà più, resterà il terreno che ha arato per venticinque anni: un Paese cresciuto nella guerra, e che della guerra ha fatto lingua madre. E l’Occidente, se davvero vuole cambiare il corso degli eventi, dovrà imparare a guardare oltre l’illusione: il fascismo moderno non morirà con l’uomo che lo incarna.

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