L’Italia rimanda l’addio alle centrali a carbone al 2038, il ministro Adolfo Urso conferma

Agosto 8, 2025 - 16:00
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L’Italia rimanda l’addio alle centrali a carbone al 2038, il ministro Adolfo Urso conferma

Mentre l’Agenzia internazionale per l’energia (Iea) annuncia che a livello globale le fonti rinnovabili – trainate dall’impetuosa crescita di eolico e solare – supereranno il carbone «già nel 2025 o al più tardi entro il 2026» diventando la prima fonte per la produzione di elettricità, l’Italia del Governo Meloni avanza a passo di gambero dando nuova vita al più inquinante e climalterante dei combustibili fossili.

A confermarlo durante il question time in Parlamento è stato direttamente il ministro delle Imprese, Adolfo Urso, con una buona dose d’equilibrismo: «Il Piano nazionale integrato per l’energia e il clima (Pniec) prevede per l’Italia la cessazione della produzione elettrica da carbone entro il 31 dicembre di quest’anno. Ancora una volta confermiamo questo impegno, prevedendo unicamente il posticipo del phase out del carbone al 2038. Sarà quindi attuata una fermata a freddo delle centrali, finalizzata a garantire la sicurezza energetica nazionale».

L’antefatto sta nell’odg presentato a fine luglio da Forza Italia e Azione, cui il Governo ha dato parere positivo accogliendolo nel decreto ex Ilva (n. 92/2025), per rimandare di 13 anni la chiusura delle centrali a carbone, fissata nell’ormai lontano 2017 per quest’anno: allora a stabilire la deadline era stato Carlo Calenda, oggi leader di Azione e primo sponsor dell’iniziativa nella (vana) attesa di un ritorno all’energia nucleare, che viene presentata come una “nuova” fonte energetica in grado di liberarci dal giogo delle fonti fossili mentre invece si dilatano i tempi del carbone.

Già oggi però sono i fondamenti economici ad aver marginalizzato la produzione di elettricità da carbone. Tutte le centrali a carbone ancora formalmente attive – oggi sono 4, Brindisi e Civitavecchia nel continente e Portovesme e Fiume Santo in Sardegna – hanno prodotto soli 3,5 TWh nel corso del 2024, coprendo appena l’1,1% dei consumi nazionali. Gli impianti a carbone «funzionano pochissimo perché non competitivi, sommando i costi del carbone e dei permessi ad emettere la tanta CO2 che producono», spiega l’economista Michele Governatori, responsabile Relazioni esterne ed Energia del think tank climatico Ecco, aggiungendo che «lasciarle in funzione, anche solo come riserva, implicherebbe: rimangiarsi la strategia energetica e climatica nazionale (approvata da Bruxelles); sussidiare le centrali a spese dei consumatori o dei contribuenti; rimandare il recupero a usi civili di aree spesso di pregio che invece devono essere bonificate dagli operatori; mostrare i riflessi condizionati di una politica che si aggrappa al passato a tempo scaduto per incapacità di vedere, raccontare, gestire il presente e il futuro con tutte le relative opportunità e responsabilità». Un po’ come già succede col gas fossile: «Per garantirne la disponibilità e quella di centrali per bruciarlo sono in campo da anni forme di sussidio ai costi fissi delle centrali, e in seguito alla crisi Ucraina si sono fatti investimenti per alcuni miliardi (a spese di tariffe e temo in futuro tasse) per diversificare gli approvvigionamenti con nuovi rigassificatori e tubi».

Al contrario, le nuove installazioni di impianti rinnovabili stanno rallentando a causa delle ampie difficoltà normative, anziché accelerare. È così che si alimentando vecchie rendite di posizione, gravando sulla bolletta pagata da cittadini e imprese, oltre che sul clima.

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Redazione Eventi e News Redazione Eventi e News in Italia