Quel pazzo venerdì e la maledizione perpetua dei sequel, remake, reboot

Guardando al cinema il sequel di “Quel pazzo venerdì”, la sensazione è quella di vivere la stessa maledizione delle protagoniste: restare intrappolati nel corpo di un’altra persona. Non la mamma in quello della figlia (e viceversa); ma noi, spettatori adulti, imprigionati nella nostra versione adolescenziale, condannati a rivedere in loop i sequel, remake e reboot dei film della nostra infanzia. O peggio, di quella dei nostri genitori. Una nostalgia canaglia che Hollywood ci impone da anni perché il già visto è più sicuro, più facile da vendere e meno rischioso di qualsiasi idea nuova, che al cinema fatica come mai prima d’ora.
Andate nei multisala più vicini o guardate la programmazione dei tanti cinema all’aperto che rallegrano le sere d’estate e contate il numero di film con accanto un numero. Vi sentirete circondati. Solo negli ultimi mesi, sul grande schermo sono usciti: “Il Gladiatore II”, “Un tipo imprevedibile 2” (con Adam Sandler), il quarto film di “Una pallottola spuntata” e di “Bridget Jones (Un amore di ragazzo)”, il quinto episodio di John Wick, anche se è uno spin off (“Ballerina”), il sesto di “Karate Kid (Legends)”, il settimo di “Jurassic Park (Jurassic World: La rinascita)” e il settimo di “Final Destination (Bloodlines)”, l’ottavo di “Mission: Impossible (The Final Reckoning)”.
E poi i reboot: il secondo di “Superman”, il secondo de “I fantastici quattro”, il terzo dei Puffi. A questi si aggiungono i remake live action di “Lilo e Stitch” e di “Dragon Trainer”; anche se non si capisce perché far interagire gli esseri umani con draghi ed esperimenti genetici quando esiste già la loro versione animata, con molte più possibilità espressive. Ma in fondo siamo gli stessi rimasti in silenzio quando la Disney, nel live action del “Re Leone”, ci propinava la versione Cgi di animali che realmente esistono in natura.
Tra poche settimane vedremo il remake de “La guerra dei Roses” (Benedict Cumberbatch e Olivia Colman al posto di Michael Douglas e Kathleen Turner), mentre nel 2026 è già annunciato un remake in live action del film di animazione “Oceania” a meno di dieci anni dall’originale e a due anni dal sequel. Poi il seguito, quello sì attesissimo, de “Il diavolo veste Prada” e il quinto capitolo di “Shrek”, che stavolta tenta la strada del soft reboot, ovvero un aggiornamento della saga con nuovi personaggi e un tono pensato per un pubblico più giovane, senza cancellare i film precedenti.
Se dopo questo elenco vi state chiedendo se avete perso i primi sedici film di “Mickey 17”, la risposta è no. Perché non è un sequel nostalgico, ma un’opera tutta nuova di Bong Joon-ho (regista di Parasite) con Robert Pattinson, andato maluccio al botteghino in Italia (poco più di due milioni e mezzo di euro). Ed è proprio questo il punto. La novità non funziona al cinema.
Un acronimo riassume bene l’incancrenirsi di questa tendenza: IP che sta per Intellectual Property. Tradotto: storie, personaggi e universi narrativi già esistenti il cui marchio è stato registrato e per questo, come il maiale, non si butta via niente. L’IP è l’unico elemento che contraddistingue le case di produzione cinematografiche, dalla Disney in giù. In un regime di concorrenza feroce e attenzione limitata, la moneta più forte è la nostalgia, capace di staccare dal divano chi cerca di capire se la novità su Netflix e Amazon Prime è una bufala o un capolavoro; salvo poi addormentarsi prima della scelta.
Di per sé gli IP non sono il male assoluto; fino a pochi anni fa erano il tesoretto sicuro da spremere per finanziare progetti nuovi e rischiosi, come accadde per “Star Wars”, che con il suo successo planetario permise a Lucasfilm di fondare Industrial Light & Magic e rivoluzionare per sempre il linguaggio degli effetti visivi. Alla Warner Bros., i miliardi incassati da “Harry Potter” resero possibile scommettere su titoli originali ad alto rischio come “Inception” o “Gravity”. Ma anche recentemente l’ambizioso e perturbante “Get Out” di Jordan Peele non sarebbe mai stato finanziato dalla Universal senza i miliardi di “Fast & Furious”.
Dopo la pandemia, però, questo patto non scritto si è rotto: i film nostalgici sono sempre di più e le scommesse sempre di meno. Negli ultimi dodici mesi, film originali come “Mr. Morfina”, “Mickey 17”, “Opus”, “The Alto Knights” (con Robert De Niro), “Megalopolis” hanno faticato o fallito, per diverse ragioni particolari ma anche per una generale: il pubblico è meno abituato alla sorpresa, anche negativa.
Il problema c’è anche nell’animazione. La Pixar per anni è stata un laboratorio di mondi inediti, ma ha dovuto far uscire “Inside Out 2” per coprire le perdite al botteghino di esperimenti come “Red”, “Elemental” (piccolo capolavoro), fino a “Elio”, il peggior debutto nella storia della compagnia d’animazione con soli ventuno milioni di dollari incassati negli Stati Uniti durante il weekend di apertura.
Anche la Disney, nei suoi primi cinquanta Classici (dal 1937 al 2010), aveva ceduto alla tentazione di ripetere la stessa idea solo due volte: con “Bianca e Bernie nella terra dei canguri” nel 1990, unico vero sequel narrativo, e con “Fantasia 2000”, revival concettuale del capolavoro del 1940, mentre tutti gli altri seguiti venivano confinati a produzioni economiche per il mercato home video. Ma dal 2010 in poi la logica è cambiata: nel canone ufficiale sono entrati sempre più sequel – da “Winnie the Pooh” a “Frozen II”, da “Ralph spacca Internet” fino al già citato “Oceania 2” e “Zootropolis 2” (2026). Si punta su universi già noti piuttosto che rischiare con storie originali, non sempre all’altezza come “Strange World” e il deludente film del centenario: “Wish”.
Non è solo Hollywood dipendente dai sequel; anche il pubblico sembra esserlo. O forse è la solita storia del cane che si morde la coda, della comfort zone o di quelle metafore che i cinefili si raccontano per spiegare un mercato a senso unico. Un tempo il botteghino si reggeva sui nomi degli attori: la commedia demenziale per il comico di punta, il film di azione dell’eroe alla moda, la pellicola sentimentale per le coppie da grande schermo. Gli studios investivano anni per costruire un divo, o una diva, capace di riempire le sale con il proprio volto. Oggi quel lavoro di branding si applica ai personaggi e alle saghe: si vende il supereroe, non l’attore che lo interpreta.
Per i bilanci è un modello più sicuro: il personaggio non invecchia, non chiede cachet più alti e, se l’attore se ne va, lo si può sostituire senza azzerare la macchina della promozione. Il marchio diventa eterno, scollegato da contratti e carriere. Insomma, minimizzare i rischi, massimizzare i ritorni. Una regola d’oro che ha avuto una sola grande eccezione: “Biancaneve”, flop sesquipedale della Disney che però forse è legato a ragioni di cui abbiamo già parlato su Linkiesta.
Persino quando il cinema tenta un salto nel buio con un film inedito, lo fa con la rete di sicurezza di un marchio già amato altrove. Il campione d’incassi mondiale del 2025 è il film su Minecraft (954,9 milioni di dollari secondo IMDb), tratto come ispirazione dal videogioco che centinaia di milioni di giocatori conoscono a memoria, con una comunità fedele che ha già interiorizzato regole, estetica e immaginario. Lo stesso era accaduto nel 2023 con il film di “Super Mario”, capace di incassare un miliardo e trecentosessanta milioni di dollari e di trasformare decenni di nostalgia videoludica in un evento intergenerazionale. Questi exploit non sono quindi la prova di un rischio creativo, ma il frutto di una credibilità costruita fuori dal cinema, capace di garantire biglietti venduti ancor prima del primo trailer.
Basta guardare le classifiche per confermare questa tesi. Nel 2000, in cima al botteghino c’erano già “Mission: Impossible II” e “Il Gladiatore”, ma accanto a loro c’erano anche film originali come “Cast Away”, “Ti presento i miei” o “What Women Want” (con un Mel Gibson politicamente scorrettissimo); storie nuove che sarebbero entrate nell’immaginario collettivo di una generazione. Oggi, nel 2025, l’unico titolo originale è “F1: The Movie”, che però nasce già col pilota automatico di un marchio sportivo conosciuto da milioni di persone. La differenza è che allora il déjà-vu conviveva con il rischio creativo; oggi è diventato il modello di business. Ci rimangono solo i film di Cristopher Nolan che però nel 2026 giocherà facile con l’epopea più famosa del mondo, l’Odissea.
Quel che resta del cinema mainstream si alimenta di un loop nostalgico da cui non riusciamo a uscire, dando l’impressione che ci sia sempre meno carne attorno all’osso. Il risultato è un’industria che parla al passato per proteggere il presente, rinviando all’infinito il momento di inventare il futuro. Hollywood è a corto di idee, ma per quanto ancora accetteremo di vivere sotto questa maledizione, pagando il biglietto per assistere alla replica infinita di un pazzo venerdì che non finisce mai?
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