Revoca in autotutela e meri atti di ritiro. La responsabilità precontrattuale della P.A.

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Il presente contributo analizza la sentenza n. 1917 del 3 giugno 2025 con la quale, la Sesta sezione del TAR Lombardia, interviene sia sulla qualificazione che sulla differenza di presupposti tra l’istituto della revoca di cui all’art. 21-quinques della Legge n. 241 del 1990, e i meri atti di ritiro. In particolare, rispetto all’analisi del pronunciato e senza pretesa di esaustività, attesa l’ampiezza e complessità dell’argomento, si offre una sintetica ricostruzione di uno degli strumenti di autotutela decisoria a disposizione della Pubblica Amministrazione, unitamente a brevi riflessioni sull’esercizio dello jus poenitendi e della tutela del legittimo affidamento.
Nella sentenza medesima, inoltre, il TAR opera un’interessante ricostruzione delle elaborazioni della giurisprudenza amministrativa in materia di responsabilità precontrattuale della Pubblica Amministrazione, certamente meritevoli di essere ripercorse.
Il Fatto
La lite ha per oggetto una procedura aperta finalizzata all’affidamento triennale, con eventuale rinnovo di dodici mesi e proroga tecnica, per la fornitura di prodotti per l’infanzia.
Dopo aver fissato quale criterio di aggiudicazione quello dell’offerta economicamente più vantaggiosa, la Stazione Appaltante ha richiesto, a pena di esclusione, che i beni oggetto di fornitura fossero «rispondenti alle vigenti disposizioni legislative relative all’autorizzazione alla produzione, alla importazione e alla commercializzazione e possedere marcatura CE».
Su tale specifica previsione del bando, la ricorrente stessa aveva formulato richiesta di interpretazione autentica alla Stazione Appaltante interrogandola, in particolare, sulla necessità che parte dei beni oggetto di fornitura dovessero essere dispositivi medici ed evidenziando come siffatta previsione rappresentasse un irragionevole criterio suscettivo di restringere notevolmente la platea di operatori economici.
In assenza di risposta da parte della S.A., la ricorrente formulava pertanto la propria offerta di beni sprovvisti della marcatura CE e, a seguito della valutazione delle offerte tecnica ed economica, risultava prima classificata con conseguente formulazione della proposta di aggiudicazione, cui tuttavia non è seguito alcun provvedimento di aggiudicazione.
All’inerzia della S.A. seguiva la diffida all’adozione del provvedimento finale da parte della ricorrente e la successiva proposizione del ricorso di cui qui si discute.
In via principale, la ricorrente chiedeva che la Stazione Appaltante desse seguito alla proposta di aggiudicazione già formulata dalla medesima, sia mediante l’adozione del relativo provvedimento, sia con la conseguente stipula del contratto. La contestazione si soffermava in particolare sull’inerzia dell’Amministrazione resistente tanto che, contestualmente, veniva chiesta la nomina con effetto immediato di un Commissario ad acta al fine di assicurare l’ottemperanza nel caso in cui l’inerzia arrivi a perdurare oltre la scadenza del termine fissato per provvedere.
Successivamente, la Stazione Appaltante aveva revocato l’intera procedura di gara, adducendo come motivazione che la formulazione dell’articolato della lex specialis in cui era prevista la marcatura CE, avrebbe creato «un involontario restringimento del mercato degli operatori economici potenzialmente interessati a prendere parte alla procedura», utilizzando le stesse deduzioni presentate dalla ricorrente in occasione della richiesta di interpretazione autentica precedentemente formulata.
Con motivi aggiunti, pertanto, l’impresa ricorrente chiedeva l’annullamento del provvedimento con il quale la Stazione Appaltante, successivamente alla proposta di aggiudicazione, aveva disposto la revoca in autotutela dell’intera procedura di gara, e formulava contestuale richiesta di risarcimento del danno per responsabilità precontrattuale cagionato dalla violazione delle clausole generali di correttezza e buona fede, da lesione del legittimo affidamento nonché dal ritardo nella conclusione del procedimento ovvero dall’adozione del provvedimento di revoca.
Veniva infine richiesto l’annullamento del provvedimento di diniego parziale di accesso alla documentazione amministrativa, con relativo ordine di ostensione della documentazione, connessa alle offerte formulate dalle imprese concorrenti, degli atti, provvedimentali o negoziali, assunti dalla Stazione Appaltante “per assicurarsi la continuità della fornitura e coprire il fabbisogno nelle more e successivamente all’espletamento della procedura di gara, da cui si possa identificare il soggetto fornitore e il costo dell’acquisto”.
Dopo aver dichiarato improcedibile il ricorso introduttivo per sopravvenuta carenza di interesse per l’effetto della revoca medio tempore della procedura di gara, veniva trattenuto in giudizio il solo ricorso per motivi aggiunti.
Dell’istituto della revoca
Nel dichiarare l’infondatezza delle due censure addotte con motivi aggiunti, il giudice di prime cure stabiliva di trattarle congiuntamente “in quanto muovono entrambe dall’erroneo presupposto che l’atto adottato sia qualificabile come una “revoca” ai sensi dell’art. 21-quinquies l. n. 241/1990”. Preliminarmente, infatti, ribadisce che in via generale il giudice non è affatto vincolato al nomen juris attribuito alle singole fattispecie dalle parti attoree, sottolineando che, sebbene l’impresa ricorrente abbia interpretato la revoca de qua in senso tecnico, ossia attribuendogli la veste di provvedimento amministrativo di secondo grado, l’Amministrazione resistente, in realtà, si è limitata a disporre una generica revoca, senza indicarne la norma attributiva del potere di ritiro.
In tal senso, richiamando recente Consiglio di Stato, Sez. III, 4 dicembre 2024, n. 9701, ribadisce che la revoca ex art. 21-quinquies della Legge n. 241/1990 “è un provvedimento di secondo grado, che postula l’esercizio di un potere discrezionale di autotutela dell’amministrazione, per ragioni di inopportunità sopravvenuta, rispetto a un atto precedentemente emanato e a efficacia durevole” mentre “l’annullamento ai sensi dell’art. 21-nonies L. n. 241/1990 può essere disposto, sussistendone ragioni di interesse pubblico ed entro il termine temporale indicato, nel caso di illegittimità originaria del provvedimento di primo grado”.
La revoca, infatti, è un atto di autotutela decisoria avente effetti caducatori ex nunc, mediante il quale l’amministrazione persegue l’interesse pubblico tramite comparazione degli interessi pubblici e privati coinvolti dall’azione amministrativa e, all’esito, motivando le ragioni che, la inducono a riformare ovvero eliminare il provvedimento originariamente adottato[1].
A mente dell’art.21-quinques, infatti, “per sopravvenuti motivi di pubblico interesse ovvero nel caso di mutamento della situazione di fatto non prevedibile al momento dell’adozione del provvedimento o, salvo che per i provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, di nuova valutazione dell’interesse pubblico originario, il provvedimento amministrativo ad efficacia durevole può essere revocato da parte dell’organo che lo ha emanato ovvero da altro organo previsto dalla legge. La revoca determina la inidoneità del provvedimento revocato a produrre ulteriori effetti. Se la revoca comporta pregiudizi in danno dei soggetti direttamente interessati, l’amministrazione ha l’obbligo di provvedere al loro indennizzo”.
Rispetto alle ragioni indicate nella norma, quindi, la revoca a tutti gli effetti colpisce atti pienamente validi. Il fatto che il provvedimento sia o meno revocabile, dunque, non dipende dalla sua validità, bensì dalla sua natura intrinseca e in relazione al fatto che il soggetto emanante possa esercitare o meno rispetto ad esso lo jus poenitendi. Fattispecie completamente diversa è invece quella dell’annullamento che, differenza della revoca, non dipende dalla natura del provvedimento bensì dai vizi che possono colpirlo. Come conseguenza, l’esercizio della potestà di revoca è sempre discrezionale, mentre quella di annullamento non solo può non esserlo quando esercitata a seguito di ricorso, ma anche quando assuma carattere discrezionale, lo è in grado minore della revoca poiché subordinata al presupposto dell’invalidità dell’atto.[2]
In conclusione, l’elemento caratteristico del potere revoca è quindi che questa è sorretta da una valutazione in ordine al perdurare dell’opportunità dell’atto, a prescindere da ogni valutazione di legittimità.
L’esercizio dello jus poenitendi e la tutela del legittimo affidamento
L’esercizio dello jus poenitendi, che nella disciplina civilistica rappresenta il c.d. diritto di pentirsi, di recedere, ha creato non poche difficoltà interpretative soprattutto in relazione all’individuazione dei presupposti legittimanti la revoca. In particolare, si rileva come tale potere possa riferirsi sia all’ipotesi del rinnovato apprezzamento degli interessi pubblici, anche già valutati in sede originaria ma successivamente mutati per contenuto o rilevanza e sia, in senso più restrittivo, al mero riesame di situazioni e fatti immutati nel tempo, purché riconsiderate alla luce di nuove esigenze.
Infatti, la revoca presuppone in ogni caso un riesercizio del potere discrezionale volto a valutare in concreto l’interesse pubblico alla rimozione dell’atto, dovendosi però contemperare da un lato l’esigenza di dinamicità e adeguamento dell’azione amministrativa e, dall’altro, la tutela del legittimo affidamento nel privato, in conformità ai principi richiamati dal ricorrente di certezza del diritto e buona fede oggettiva.
Tali principi, seppur non espressamente richiamati dal legislatore nell’articolato della Legge sul procedimento amministrativo ma, come noto, clausole generali di genesi civilistica, si ritengono immanenti all’ordinamento e impongono una valutazione ragionevole dell’interesse pubblico attuale, in funzione del grado di consolidamento delle situazioni giuridiche soggettive incise dal provvedimento. Chiaramente la maggiore difficoltà risiede proprio nell’individuazione dei criteri oggettivi e predeterminabili tesi a qualificare l’interesse pubblico come attuale e concreto, atteso che tali caratteristiche, per loro intrinseca genericità, non costituiscono parametri certi ed esaustivi. A questo si aggiunga poi l’assenza di una chiara disciplina normativa sulla regolamentazione del fattore temporale entro cui il potere di revoca può essere esercitato, con la conseguenza che tale potere, in astratto, appare privo di tali limiti, salvo il rispetto del principio del legittimo affidamento.
Proprio tale indeterminatezza richiede che la revoca, quando determini un pregiudizio per i soggetti direttamente incisi, dia dunque luogo a un indennizzo seppure questo limitato al danno emergente. Va ricordato però che tale ristoro è escluso o ridotto nel caso in cui i destinatari del provvedimento revocato fossero a conoscenza, o potessero facilmente conoscere, l’illegittimità sostanziale dell’atto ovvero abbiano concorso nell’erronea valutazione dell’interesse pubblico sotteso.
Le considerazioni del TAR in ordine alla qualificazione dell’atto di ritiro
Il giudice, sulla base degli anzidetti postulati e dopo averne ribadito il contenuto, richiamando il Tar Veneto, Sez. II, 6 luglio 2023, n. 1003, afferma che “laddove la pubblica amministrazione si limiti a rimuovere successivamente uno o più atti illegittimi che non abbiano ancora avuto esito in un provvedimento finale, si è in presenza di un mero ritiro doveroso […], ben diverso dai discrezionali consueti provvedimenti di secondo grado come la revoca e l’annullamento d’ufficio, contemplati dagli artt. 21-quinquies e 21-nonies, L. 7 agosto 1990, n. 241.
Siffatta differente qualificazione di atto di mero ritiro, come affermato da copiosa giurisprudenza, comporta pertanto che il provvedimento che ne costituisce l’oggetto “non è subordinato alla previa verifica della sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale, non necessita della valutazione delle posizioni soggettive eventualmente coinvolte nella vicenda e non richiede il previo avviso di inizio del procedimento”. Ne consegue che la rimozione del bando di gara, precedente al provvedimento finale di aggiudicazione, non possa nemmeno essere qualificata quale espressiva dell’esercizio del potere di autotutela ma anzi, proprio perché non intervenuta la definitiva aggiudicazione, tale rimozione rappresenti null’altro che un mero atto di ritiro.
Evidenziato quanto sopra, il giudice osserva come l’Amministrazione non fosse affatto onerata dell’obbligo di conformare il provvedimento di ritiro ai presupposti legittimanti di cui all’art. 21-quinquies della Legge n.241 del 1990, non essendo pertanto tenuta a indicare i sopravvenuti motivi di interesse pubblico, ovvero di procedere a una comparazione tra l’interesse pubblico e quello del privato.
Parimenti, non trovavano neppure applicazione i limiti temporali di cui all’art. 21-nonies della legge medesima, trattandosi non di un atto di secondo grado di natura discrezionale, bensì di un intervento doveroso da parte della Stazione Appaltante una volta accertata l’illegittimità originaria dell’atto. Il provvedimento di ritiro, infatti, risulta adeguatamente motivato in ragione dell’invalidità dell’articolo della lex specialis che subordinava la partecipazione alla procedura di gara al possesso, a pena di esclusione, della marcatura CE per i beni offerti. La stazione appaltante ha evidenziato come tale previsione determinasse un’irragionevole restrizione dell’accesso al mercato, in assenza di una specifica giustificazione tecnica, così violando l’art. 68, comma 4, del d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, applicabile ratione temporis, che impone che “Le specifiche tecniche [dei prodotti] consentono pari accesso degli operatori economici alla procedura di aggiudicazione e non devono comportare direttamente o indirettamente ostacoli ingiustificati all’apertura degli appalti pubblici alla concorrenza”.
In sostanza l’Amministrazione, preso atto della carenza di fondamento tecnico della clausola escludente, ha correttamente provveduto alla rimozione della causa di invalidità della procedura selettiva, la cui previsione aveva inficiato ab origine la validità della stessa. La clausola in questione, infatti, prevedendo la marcatura CE quale requisito inderogabile, precludeva ingiustificatamente la partecipazione di operatori economici, tra cui la stessa ricorrente, fornitori di prodotti privi di tale marcatura, in assenza di esigenze funzionali che ne imponessero l’inserimento.
Ne consegue che il ritiro degli atti di gara non è stato determinato da sopravvenute valutazioni di opportunità amministrativa, bensì dall’esigenza di rimuovere un vizio di legittimità originaria, connotato da nullità o comunque da evidente contrasto con la normativa vigente.
La conseguenza di quanto precede, è l’ulteriore rigetto della richiesta di conclusione del procedimento con l’adozione di un provvedimento di aggiudicazione, proprio per via della doverosità dell’atto di ritiro a fronte delle suesposte ragioni di legittimità.
Medesime considerazioni valgono poi per la richiesta di risarcimento dei danni subiti in conseguenza dell’anzidetto ritardo, proprio in virtù dell’assenza di qualsivoglia spettanza del bene della vita cui la ricorrente aspirava e di cui si vedrà nel seguito.
La responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione
Rispetto alle doglianze della ricorrente, particolare attenzione viene posta dal giudice in ordine alla c.d. responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione, di cui si premura di fornire una ricostruzione giurisprudenziale meritevole di attenzione.
L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con sentenza n. 5 del 4 maggio 2018, ha enunciato il principio per cui l’Amministrazione Pubblica, anche nell’esercizio della propria funzione autoritativa, è tenuta all’osservanza non solo delle norme pubblicistiche, ma altresì dei principi generali dell’ordinamento civile, tra i quali le stesse clausole generali di correttezza e buona fede.
La violazione di tali principi può integrare un illecito civile idoneo a ledere il diritto soggettivo all’autodeterminazione negoziale, dando luogo a responsabilità precontrattuale. In materia di procedure ad evidenza pubblica, tali doveri operano fin dalle fasi prodromiche e si estendono all’intero svolgimento della procedura di gara, indipendentemente dalla formale adozione del provvedimento di aggiudicazione. Ne discende che la responsabilità precontrattuale ben possa configurarsi anche in presenza di singoli atti legittimi, ove l’Amministrazione abbia tenuto una condotta complessivamente scorretta. In tale prospettiva, sull’operatore economico grava pertanto l’onere di dimostrare:
- la propria buona fede soggettiva, intesa quale affidamento incolpevole sulla sussistenza di un presupposto di fatto o di diritto che lo abbia indotto a compiere scelte economicamente onerose;
- la lesione di tale affidamento, derivante da una condotta obiettivamente contraria ai principi di lealtà e correttezza e soggettivamente imputabile all’Amministrazione per dolo o colpa;
- l’esistenza di un danno-evento, ossia la compressione della libertà negoziale;
- il danno-conseguenza, ossia le perdite economiche concretamente subite in conseguenza delle scelte negoziali condizionate dalla condotta illecita, nonché il nesso di causalità tra tale danno e il comportamento imputato all’Amministrazione.
Con successiva sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 21 del 29 novembre 2021, viene poi ulteriormente precisato che, nel contesto delle procedure di affidamento di contratti pubblici, la responsabilità precontrattuale della Pubblica Amministrazione per violazione colposa dei doveri di correttezza e buona fede, ha quale indefettibile presupposto che il concorrente abbia maturato un ragionevole affidamento sulla futura stipulazione del contratto, aspetto quest’ultimo da valutarsi in rapporto all’effettivo grado di avanzamento del procedimento. Tale affidamento, inoltre, non deve risultare inficiato da colpa dell’operatore medesimo.
Rispetto al quantum risarcitorio, invece, a tenore di costante orientamento della giurisprudenza amministrativa, in ipotesi di responsabilità precontrattuale il risarcimento del danno è limitato al c.d. interesse negativo, il quale comprende tanto il danno emergente, ossia a costi e spese sostenuti per la partecipazione alla procedura, quanto il lucro cessante. È, inoltre, astrattamente ammissibile il risarcimento della perdita di chance, circoscritta alle concrete opportunità alternative di guadagno che l’operatore avrebbe potuto perseguire in assenza della condotta colposa della stazione appaltante (cfr. Cons. Stato, Sez. V, n. 5274/2021; Sez. VII, n. 3661/2022).
Nella fattispecie in esame, la ricorrente sostiene di aver confidato, in buona fede, nell’aggiudicazione della gara deducendo che la Stazione Appaltante, anziché indire una nuova procedura, avrebbe proseguito l’approvvigionamento mediante proroga tecnica del contratto preesistente, peraltro a condizioni economiche meno vantaggiose rispetto a quelle che la società afferma di poter offrire.
La decisione del TAR Lombardia
Accanto al già esaminato rigetto delle doglianze in ordine all’adozione del provvedimento finale di aggiudicazione all’esito dell’espletato procedimento di gara per le anzidette ragioni, anche la pretesa risarcitoria, come già anticipato, non viene ritenuta fondata dal TAR Lombardia.
Con la sentenza n. 1917 del 3 giugno 2025, afferma il giudice che le determinazioni discrezionali assunte dalla Stazione Appaltante, avuto riguardo tanto alla mancata attivazione di una nuova procedura di evidenza pubblica, tanto al ricorso alla proroga tecnica del contratto preesistente, esulano dall’ambito oggettivo della responsabilità precontrattuale, non potendo in alcun modo costituire fonte di lesione dell’eventuale affidamento maturato dall’operatore economico nel corso della procedura originaria, poiché riferibili a vicende amministrative successive e autonome rispetto alla stessa.
Inoltre, non può in alcun modo ravvisarsi in capo alla ricorrente quell’affidamento incolpevole giuridicamente tutelabile, atteso che la stessa ha partecipato alla procedura selettiva ben sapendo della propria carenza rispetto ad uno dei requisiti essenziali previsti a pena di esclusione, ancorché illegittima, ossia la marcatura CE dei prodotti offerti. Tale circostanza appare ancora più evidente in considerazione del fatto che la ricorrente stessa aveva chiesto, in precedenza, l’interpretazione autentica della clausola del bando, censurando l’effetto lesivo del favor partecipationis della medesima. Nondimeno, nonostante l’assenza di riscontro da parte della Stazione Appaltante, la ricorrente ha ritenuto di presentare offerta, pur nella consapevolezza dell’assenza del requisito richiesto e dell’illegittimità, peraltro da essa stessa prospettata, della clausola escludente.
In tale quadro fattuale, difetta l’elemento soggettivo dell’affidamento incolpevole, essendo evidente la piena cognizione della propria posizione di oggettiva inidoneità alla partecipazione utile alla gara e della non conformità della lex specialis alla normativa di settore. In tal senso, sottolinea il giudice che, anche a voler prescindere dall’eventuale illegittimità della condotta amministrativa, deve escludersi che essa abbia potuto generare un affidamento ragionevole e giuridicamente protetto sulla positiva conclusione della procedura in favore della ricorrente, con il conseguente venir meno degli anzidetti presupposti minimi per l’accoglimento della pretesa risarcitoria avanzata a titolo di responsabilità precontrattuale.
[1] ex multis, cfr. TAR Lazio Roma, Sez. II, 23 febbraio 2015, n. 2999
[2] Santi Romano
Leggi anche: I motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza e i provvedimenti a contenuto vincolato
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