Abuso d’ufficio, la Consulta conferma: l’abrogazione non viola la Convenzione ONU

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Con la sentenza 95/2025, la Consulta ha dichiarato infondate le questioni di legittimità sollevate contro l’aborgazione del reato di abuso d’ufficio, sancita dalla legge 114/2024.
Secondo la Consulta, la scelta del Parlamento non viola gli obblighi internazionali dell’Italia, in particolare la Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione, meglio nota come Convenzione di Mérida.
Al centro della discussione vi era il timore che la soppressione di questa fattispecie penale potesse creare un vuoto nella lotta contro le condotte illecite nella pubblica amministrazione. Tuttavia, i giudici costituzionali hanno chiarito che spetta al legislatore valutare e modulare gli strumenti più adatti per prevenire e contrastare gli abusi dei pubblici ufficiali, senza che la Corte possa sostituirsi a tale giudizio con una propria valutazione di merito.
Abuso d’ufficio, la Consulta conferma: l’abrogazione non viola la Convenzione ONU
Nelle sue motivazioni, la Corte Costituzionale ha affrontato in modo puntuale uno dei nodi centrali del dibattito: il possibile contrasto tra l’abrogazione dell’abuso d’ufficio e gli obblighi derivanti dalla Convenzione ONU contro la corruzione, firmata a Mérida nel 2003 e ratificata dall’Italia nel 2009. Secondo i giudici, tale eliminazione non compromette gli impegni internazionali del nostro Paese, poiché la Convenzione non impone in modo tassativo l’esistenza di una specifica fattispecie penale come quella abrogata. Piuttosto, il trattato richiede agli Stati aderenti di dotarsi di strumenti adeguati per prevenire e punire atti di corruzione, lasciando ampi margini di discrezionalità sul piano normativo.
La Corte ha chiarito che il suo ruolo non è quello di valutare se il nuovo impianto legislativo sia più o meno efficace nella lotta agli illeciti della pubblica amministrazione. Tali giudizi rientrano nella sfera della politica legislativa e non possono essere oggetto di sindacato costituzionale. In altri termini, i giudici non possono sostituirsi al Parlamento nel determinare quali reati debbano essere previsti, né possono esprimersi sull’opportunità politica di mantenerli o sopprimerli, salvo che la scelta non violi esplicitamente diritti fondamentali o trattati internazionali vincolanti.
Anche di fronte ai potenziali effetti collaterali dell’abrogazione – come il possibile ridimensionamento della capacità punitiva dell’ordinamento penale verso determinati comportamenti scorretti di pubblici ufficiali – la Corte ha ribadito la netta distinzione tra controllo di legittimità e valutazione politica. È compito del legislatore, infatti, bilanciare le esigenze di repressione degli abusi con quelle di certezza del diritto, efficienza amministrativa e semplificazione normativa.
La legittimità della legge
I benefici che il Parlamento ha indicato nei lavori preparatori della legge, come il contrasto all’abnorme ricorso all’abuso d’ufficio come strumento d’indagine e il timore paralizzante della firma nei funzionari pubblici, rientrano – secondo la Consulta – in una visione politica legittima.
Se tali vantaggi riusciranno o meno a compensare le lacune lasciate dall’eliminazione del reato, non è una questione che può essere sottoposta al vaglio della Corte Costituzionale.
In ultima analisi, per i giudici, la riforma si colloca entro i limiti fissati dalla Costituzione e dal diritto internazionale. L’abrogazione dell’abuso d’ufficio, pur suscitando divisioni nel dibattito pubblico e tra gli operatori del diritto, rappresenta una scelta legislativa che non infrange né i principi fondamentali dell’ordinamento repubblicano né gli impegni assunti dall’Italia sul piano internazionale.
Rimane quindi integro il potere del Parlamento di definire – e ridefinire – l’architettura penale nel settore della pubblica amministrazione, con l’assunzione della piena responsabilità politica delle proprie decisioni.
Il testo della sentenza
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