I medici non siano complici e ricordino la deontologia, non devono firmare i nullaosta per i Cpr
Appare con sempre maggiore evidenza, anche documentale, che “salute” e “detenzione amministrativa” siano due mondi lontani e inconciliabili: sono innumerevoli ormai le prove della strutturale patogenicità di questi luoghi – e dei Centri di Permanenza per il Rimpatrio in particolare – per chi vi entra sano, come pure sono lampanti le dimostrazioni della tragica deriva manicomiale in atto, che essi stanno assumendo.
Le recenti sentenze del Consiglio di Stato e della Corte Costituzionale sul tema, che apparentemente sembrano iniziare a far luce su questo profilo oscuro (l’impossibilità di cura in un luogo che è tutt’altro che deputato alla cura), rischiano invece di condurre ad una normazione di fortuna che, considerato il contesto politico, verosimilmente porterà ad una normalizzazione del tutto: è lecito temere il conferimento di un involucro-paravento di formale legalità a un istituto che costituisce, nei fatti e nelle funzioni, il massimo emblema del razzismo istituzionale e che – non deve essere più un tabù affermarlo – si fonda, senza soluzione di continuità dalla sua fondazione con la legge Turco Napolitano (1998) ad oggi, sulla applicazione della violenza sistematica. Perche’ questo sono la lenta tortura quotidiana e le deportazioni di Stato, effettuate su base etnica, a danno di persone private della libertà personale (e di svariati altri diritti fondamentali) solo per non essere queste in possesso di un permesso di soggiorno che, in un perverso cortocircuito, la legge non consente di ottenere e rende sempre più difficile conservare.
In queste ultime settimane si sono intensificate le notizie provenienti dal CPR di via Corelli (l’unico, insieme a quello di Gradisca d’Isonzo, dal quale riceviamo immagini e video grazie alla possibilità riconosciuta ai detenuti di utilizzare i telefoni cellulari personali, dopo una sentenza del Tribunale di Milano) che confermano la presenza al suo interno di persone con fragilità psichica lasciate prive di cura, perennemente sedate, e abbandonate al loro autolesionismo. Ciò ha determinato l’urgenza di fornire una risposta a una domanda fondamentale, ora che il Patto Migrazione e Asilo, dalla prossima estate, rischia concretamente di fare della detenzione amministrativa, e in particolare del “modello Albania”, il modello stesso di “gestione” del fenomeno migratorio, in UE e non solo. A meno di un’inversione di rotta che sia determinata da una presa di coscienza e una mobilitazione collettive, quanto più trasversali possibili.
Questo l’interrogativo: dopo le denunce e le molteplici evidenze, e il tour di Marco Cavallo per i CPR d’Italia, che ha visto la società civile assieme ad esperte ed esperti di salute mentale reclamare la chiusura di questi luoghi, come già accaduto con successo con manicomi e OPG, cosa resta dell’eredità basagliana di lotta alla istituzioni totali, al di là dei simboli e delle buone intenzioni? Chi e come può davvero giocare un ruolo determinante in questa direzione, quanto ai CPR? Come giocano la presa di posizione della Fnomceo e dell’Ordine nazionale degli psicologi? Se ne è discusso, il 19 novembre sera alla Camera del Lavoro di Milano, con il filosofo prof. Romano Madera, traendo il pretesto dalla visione di una parte del toccante documentario di Lorenzo Giroffi sui CPR, e ci si è confrontati con rappresentanti sindacali, anche della Funzione Pubblica Lombardia della CGIL, cui fanno capo anche medici e le mediche del settore pubblico. Per la rete Mai più Lager – No ai CPR,hanno portato le esperienze e le proprie riflessioni il dr. Nicola Cocco, medico infettivologo, Camilla Ponti, psicologa, Luca Ceraolo, antropologo e Teresa Florio, operatrice legale addetta al centralino SOS CPR.
Ebbene, giungendoci da percorsi diversi, ciascuno nella propria disciplina e con la propria visuale, la risposta è stata di fatto univoca: non è più il tempo di analisi fini a sé stesse, non è più tempo di riesumare simboli del passato dalla naftalina per riporveli subito dopo, né di limitarsi a “monitorare” una realtà che è oggettivamente disumana, antigiuridica e irredimibile, così come ai vertici si vuole e si persegue ormai da 27 anni. Inutile appellarsi alle forze politiche, anche di una certa sinistra, che spesso alla fondazione e al mantenimento nell’ombra di questi centri hanno offerto il proprio contributo: non resta che appellarsi alle nostre, di forze, per ottenere l’abolizione di questi luoghi, in primo luogo per quel che rappresentano, nel disegno della propaganda di criminalizzazione delle persone migranti (a suon di decreti emergenziali “sicurezza-immigrazione”) e di erosione dei diritti fondamentali di tutte e di tutti. E ciò, prima ancora che per quanto di orrendo e umanamente insostenibile vi accade al loro interno. E per farlo non si può non prendere le mosse dalla diffusione di una maggiore consapevolezza sul tema, specie nell’ambito sanitario, cui l’incontro era precipuamente rivolto: troppo spesso i professionisti e le professioniste del settore, per ignoranza o eccessiva superficialità, finiscono (a volte inseguendo l’illusione di poter fare la differenza) per divenire complici del funzionamento di questo meccanismo perverso e insieme vittime dello stesso, venendone fagocitati, e facendosene strumento, in palese violazione dell’art. 32 della Costituzione ma anche del Codice di Deontologia Professionale dell’Ordine dei Medici.
Si pensi infatti: a chi si presta ad attestare, in strutture pubbliche, in visite di pochi minuti se non secondi, l’idoneità di persone candidate al trattenimento tradotte al loro cospetto da agenti di polizia impazienti; a chi si vede arrivare dalla detenzione in CPR, in pronto soccorso, persone vittime di pestaggi o overdosi di sedazioni, o martorizzate da atti di autolesionismo, e le dimette rispedendole al mittente di Stato, rimettendole ad un “medico curante” che non esiste e con una terapia che non verrà seguita mai (salvo quelle utili alla “camicia farmacologica” di profluvi di benziodiazepine e simili, tanto funzionale ad una “tranquilla” gestione del centro). O si pensi ancora a chi accetta di lavorare come medic*, psicolog* o infermier* alle dipendenze del gestore privato del centro (datore di lavoro che guadagna per ogni giorno di presenza in più di chi è presente nel centro – in qualunque condizione di salute versi – e che perde profitto quanto più si spende in cure…).
E soprattutto si pensi anche a medici e mediche dei reparti di psichiatria, come quelli dell’ospedale Niguarda di Milano, che ora prestano servizio all’interno dei CPR un paio di volte a settimana, fingendo forse con se stessi di essere in un luogo di cura anziché in un luogo di abbandono e tortura. Ciò in macroscopico spregio non solo dei diritti fondamentali della relativa disciplina specialistica, ma anche in violazione dell’art. 3 del Regolamento Nazionale dei CPR del 19 maggio 2022 che, almeno sulla carta, vieterebbe e vieta ancora la presenza di persone vulnerabili all’interno di questi luoghi. Con conseguente grave, paradossale rischio, di contribuire ad avallare definitivamente la deriva manicomiale sopra denunciata. Il cammino verso l’abolizione é ancora lungo, ma quel che sappiamo è che comincia da qui: consapevolezza e terra bruciata attorno.
Qual è la tua reazione?
Mi piace
0
Antipatico
0
Lo amo
0
Comico
0
Furioso
0
Triste
0
Wow
0




