Il calo della produttività non interessa a nessuno, eppure spiega tutto

Il 12 dicembre l’Istat ha pubblicato i dati sulla produttività del lavoro italiana, con la serie storica degli ultimi trent’anni. Dopo la discesa del 2,7 per cento nel 2023, nel 2024 la produttività è calata ancora dell’1,9 per cento. Un dato negativo, soprattutto se pensiamo anche all’apporto della mole di soldi del Pnrr che avrebbe dovuto rivoluzionare la nostra economia.
Eppure, invece che titolare il suo comunicato “Produttività ancora in calo…”, l’Istituto di statistica ha scelto stranamente un ben più positivo “Nel 2024 meno accentuato il calo della produttività del lavoro […]”.
In ogni caso, al di là delle scelte stilistiche dell’Istat, di questo segno meno si è parlato pochissimo, nonostante sia uno degli indicatori principali che spiegano la debolezza della nostra economia e dei nostri salari. Tutti dicono di voler aumentare gli stipendi, pochi parlano della produttività. Ma le due cose, come sappiamo, si muovono insieme.
La produttività del lavoro è quell’indicatore che spiega l’efficienza con cui un lavoratore o un’impresa generano beni o servizi in un certo periodo di tempo e con una certa quantità di risorse. Ha a che fare quindi con le prestazioni dei dipendenti, ma anche con la loro formazione, l’innovazione, le tecnologie usate e l’organizzazione aziendale.
Il report dell’Istat mostra la stagnazione della produttività del lavoro in Italia dal 1995 al 2024. Un grafico piatto, con una crescita media annua di appena lo 0,3 per cento. E un trend negativo negli ultimi anni, che dimostra la difficoltà del sistema economico italiano nell’innovare e trasformare il lavoro in valore reale. Perché, mentre la produttività cala, l’Istat dice che le ore lavorate sono cresciute del 2,3 nel 2024. Ma il valore aggiunto è aumentato solo dello 0,4 per cento, cioè meno dello 0,8 del 2023.
L’aspetto grave è che se finora si è sempre detto che la bassa produttività italiana era dovuta soprattutto ai servizi, i dati Istat ci dicono che nel 2024 anche nell’«industria in senso stretto» si è registrato un calo dello 0,7 per cento.
Insomma, è evidente che c’è qualcosa che non va. Nonostante i posti di lavoro crescano, con il lavoro non si genera ricchezza in modo proporzionale. La produttività scende, infatti, la produzione industriale pure e il Pil quest’anno crescerà solo dello 0,5 per cento. Senza dimenticare che, se non ci fosse stato il Pnrr, l’Italia avrebbe vissuto già una lieve recessione nel 2025.
La questione è più seria del calo «meno accentuato» con cui ha titolato l’Istat. Anche perché, come abbiamo scritto più volte in questa newsletter, bassa produttività vuol dire anche bassi salari. E se si alza lo sguardo dalle magre buste paga degli italiani ai dati macroeconomici, ci si accorge infatti che tutto si autoalimenta (da leggere “La questione salariale” di Garnero e Mania).
Nel 1995, il livello di produttività oraria del lavoro italiano aveva superato persino quello degli Stati Uniti. Poi a metà anni Novanta, l’Europa comincia a decelerare, e l’Italia, a sua volta, si distacca dal resto dell’Europa. È il decennio della fine delle grandi imprese pubbliche, quando esplode la rivoluzione informatica. Per aumentare la produttività, servivano investimenti, ricerca, formazione, nuove competenze manageriali e una pubblica amministrazione all’altezza. L’assenza di questo pacchetto di politiche spiega il blocco italiano. La produttività si ferma e così anche il Pil. Difficile che accadesse qualcosa sul fronte dei salari.
Mentre veniva e viene alimentata ancora oggi la narrativa che ci ha portato a credere che si potesse vivere di turismo o edilizia o del «piccolo è bello» riferito alla dimensione aziendale, per reggersi in piedi gran parte delle imprese italiane – tranne qualche eccezione, soprattutto tra le grandi – ha scelto di competere comprimendo i costi, a partire da quello del lavoro.
Come ha spiegato anche Bankitalia, negli ultimi anni le imprese hanno assunto di più soprattutto perché il lavoro era meno costoso rispetto all’investimento in macchinari e innovazione. Questa dinamica ha favorito l’occupazione, ma dal 2022 c’è stata «una ricomposizione della produzione a favore delle imprese a maggiore intensità di lavoro, che ha sostenuto l’espansione delle ore lavorate ma ha contemporaneamente ridotto la produttività media».
Sul Corriere della sera, qualche giorno fa Francesco Giavazzi ha confrontato l’Italia con la Corea del Sud, dove il governo è intervenuto sin dall’inizio per mantenere i salari alti. «Salari alti riducono i margini delle imprese e le obbligano, per sopravvivere, a spostarsi rapidamente verso settori ad alta produttività», scrive Giavazzi. «Comprimere i salari (forse) aumenta l’efficienza e i profitti aziendali, difficilmente aumenta la produttività». Ma «bassi salari non significano solo, come vediamo oggi, bassi redditi, scarsi consumi e crescita asfittica. Significano anche scarsi pungoli a puntare sulla produttività». Tutto si tiene. Non solo. Come ricorda il rettore della Bocconi Francesco Billari, la Corea del Sud intanto ha pure affrontato come noi un profondo calo demografico, gestendolo però non con i bonus bebè (come facciamo noi), ma puntando sull’istruzione dei giovani e quindi sulle competenze.
E qui il cerchio si chiude.
In questi giorni, non a caso, tra le piccole e medie imprese italiane pare ci sia molta preoccupazione per gli aumenti salariali previsti nel rinnovo del contratto dei metalmeccanici. I 205 euro in più per gli operi di livello C3, su cui si è trovato l’accordo, non sono un problema per le grandi aziende metalmeccaniche. Ma lo sarebbero invece per le tante piccole imprese che finora, magari, sono sopravvissute puntando anche sulla compressione dei salari.
“Forzalavoro” è la newsletter su lavoro ed economia de Linkiesta. Arriva ogni lunedì, più o meno all’ora di pranzo.
Ogni settimana, proviamo a raccontare cosa accade tra uffici, fabbriche, lavoratori e datori di lavoro, con un’agenda dei principali eventi della settimana.
Per leggere l’intera newsletter, basta iscriversi (gratis) cliccando qui.
Per segnalazioni, integrazioni, critiche e commenti, si può scrivere a lidia.baratta@linkiesta.it
L'articolo Il calo della produttività non interessa a nessuno, eppure spiega tutto proviene da Linkiesta.it.
Qual è la tua reazione?
Mi piace
0
Antipatico
0
Lo amo
0
Comico
0
Furioso
0
Triste
0
Wow
0




