“Libertà personale e carcere”, il saggio di Davide Galliani è il viaggio di un giurista inquieto nel diritto penale costituzionale
1. Per troppo tempo i costituzionalisti hanno rinunciato a occuparsi di giustizia penale. È stata una resa all’eccessiva specializzazione del sapere che crea mondi paralleli, dunque separati. È stato un errore perché il costituzionalismo è una tecnica delle libertà, minacciate dal continuo ricorso al maglio penale. Servono scambi, non monopoli. Ora qualche costituzionalista ci prova, come fa Davide Galliani in forme dinamiche e originali.
Dopo la monografia sulla pena di morte (Cittadella Editrice, 2012), è stato il capofila del primo progetto di ricerca dell’UE sull’ergastolo. È il promotore della trilogia di volumi interdisciplinari sul diritto alla speranza (Giappichelli 2019, 2020 e 2024). Nel suo Ateneo, tiene da anni l’innovativo insegnamento di Diritto costituzionale penale ed europeo. Non basta. Più volte ha preso parte (nel senso processuale del termine) alla dialettica davanti alle Corti costituzionale e di Strasburgo, elaborando amici curiae e ricorsi, spesso vincenti: da ultimo, nel caso Lavorgna c. Italia, riguardante la contenzione meccanica prolungata di un paziente psichiatrico. Dunque, Galliani non solo si occupa di diritto costituzionale penale, ma si preoccupa di farlo vivere. Il suo ultimo libro, Libertà personale e carcere (Franco Angeli, 2025) si inserisce in questa coerente bio-bibliografia.
2. I libri che pubblichiamo svelano sempre qualcosa di noi: mentre li scriviamo, ci raccontano. Non fa eccezione questo libro, il cui autore è riconoscibilissimo da come il tema è narrato, prima ancora che nelle tesi sostenute. Non si tratta di una monografia, di cui non ha né la struttura né la sistematicità. Non è un’antologia, perché le sue pagine sono inedite e dalla trama unitaria. Che libro è, allora? La risposta è nel suo sottotitolo: Percorsi di diritto costituzionale penale. Percorsi didattici ma, prima ancora, percorsi mentali dell’autore. Al lettore sembra di vederlo, mentre solleva questioni e ipotizza soluzioni, spesso creative o inaspettate. È un corpo a corpo con sè stesso, testimoniato da uno stile tutto suo fatto di citazioni eccentriche (Coco Chanel, Alda Merini, Primo Levi), espressioni eterodosse («il penale», «il costituzionale»), metafore gergali (due soli esempi: gli scopi della pena accreditati dall’UE? «Stanno alla rieducazione come il vino rosso con un piatto di spaghetti e vongole»; gli obblighi di penalizzazione? «Sono come i cioccolatini di Forrest Gump, una volta che apri la scatola ne mangi uno dietro l’altro, e non sai mai quello che ti capita»). Alcuni lettori apprezzeranno, altri meno. Sono, invero, i sintomi della smisurata passione di Galliani per il tema, il suo studio, il relativo insegnamento.
3. Il libro ha una sua conformazione geologica: «la grotta» è il diritto costituzionale penale; la libertà personale e il carcere sono «le gallerie» scavate dall’autore. La prima gli consente di ragionare sull’habeas corpus dell’art. 13 («l’emblema del garantismo penale tradotto in Costituzione»), i suoi meccanismi di tutela (riserva di legge e di giurisdizione), le sue interrelazioni con altre previsioni costituzionali (la presunzione d’innocenza, i limiti alla durata della custodia cautelare, l’obbligo di riparare gli errori giudiziari), le misure di prevenzione («il mondo sospetto delle pene del sospetto»), il reato di tortura.
La seconda galleria si biforca in due tunnel. Il primo attraversa «il volto costituzionale del sistema penale», il senso della pena secondo Costituzione, l’assenza di una base testuale per le allarmanti esigenze di difesa sociale, la giustizia riparativa (di cui non si tacciono le criticità), il principio di proporzionalità, la dignità umana (nelle sue diverse declinazioni). L’altro tunnel scava sotto la realtà incostituzionale del carcere di oggi, esemplificata in alcuni suoi problemi: il sovraffollamento, il regime dei trasferimenti, la penuria di funzionari giuridico-pedagogici, le resistenze ai colloqui intimi dietro le sbarre. Problemi ai quali il libro guarda «in modo radicalmente differente», suggerendo rimedi tanto innovativi quanto praticabili.
4. Tra le molte pepite estratte, alcune mi paiono più preziose di altre. La prima è la dimensione individuale della libertà personale (art. 13 Cost.): il divieto di arresti arbitrari, valido per «qualsiasi» forma di restrizione della libertà del soggetto, «prima di ogni altra cosa, si rivolge proprio alla singola persona, al suo corpo, alla sua morale, alla sua libertà». Sono d’accordo. È certamente vero che al centro della nostra Costituzione c’è l’idea di persona, non atomizzata ma immersa in un fascio di «rapporti» (civili, etico-sociali, economici, politici). Rapporti che, tuttavia, muovono pur sempre dal corpo del singolo perché «noi non abbiamo, ma siamo un corpo» (Adriano Sofri).
È un approdo ermeneutico da difendere. Così inteso, l’art. 13 Cost. è la base per l’autogoverno della propria dimensione corporea, contro le pretese di allocare altrove le decisioni ultime sulla propria vita. Imprigionare per legge un malato dentro un corpo fattosi galera, fino alla fine e contro la sua volontà, rappresenta una «mortificazione della dignità dell’uomo che si verifica in ogni evenienza di assoggettamento fisico all’altrui potere e che è indice sicuro dell’attinenza della misura alla sfera della libertà personale» (Corte costituzionale, sent. n. 105/2001).
5. Condivisibili sono anche le critiche ai troppi obblighi di penalizzazione derivanti dai trattati – internazionali e comunitari – sottoscritti dall’Italia, per di più sanzionati con livelli edittali dolomitici. In tal modo, l’ombrello della penalità si apre su beni incomparabili: dal divieto di immissione nel mercato europeo di cannucce plastificate alle gross violations dei diritti umani. È una classica eterogenesi di fini: la teoria della tutela di beni costituzionalmente rilevanti era nata, con Franco Bricola, per contenere il ricorso alla leva penale. Ora, invece, serve per estenderne l’uso. Quella categoria «una volta faceva spavento, oggi è sdoganata» perché capovolta nel suo fine. Le previsioni per il futuro sono ancora più fosche. «La Repubblica tutela le vittime di reato», si leggerà nel 2° comma dell’art. 24 Cost., se andrà in porto la sua revisione già approvata in prima lettura al Senato. E poiché paradigma vittimario e obblighi di penalizzazione «parlano la stessa lingua», il pan-penalismo avrà davanti a sé nuove praterie dove galoppare a briglie sciolte.
6. Un’ultima pepita. Riguarda il finalismo rieducativo delle pene, oramai soppiantato – argomenta Galliani – da una finalità retributiva fine a sé stessa: «il punire perché è giusto punire». Con tutti i suoi corollari retorici, fino al «dovere di punire costi quel che costi». La retribuzione è implicita nell’art. 27, 3° comma, Cost.: purchè non sia inumana, infatti, la pena che fa soffrire è ammissibile. Dunque, «l’afflittività non può superare il limite del senso di umanità, ma sopra esiste, eccome se esiste». Motivo in più, a mio avviso, per concordare con la Corte costituzionale quando – a proposito del finalismo rieducativo e del divieto di trattamenti inumani – parla di contesto «non dissociabile» (fin dalla sent. n. 12/1966), perché i due principi si integrano reciprocamente. Così contestualizzato, il canone di umanità delle pene può sprigionare tutta la sua carica garantista, quale principio inderogabile, sottratto al bilanciamento con altri principi costituzionali, della cui violazione lo Stato risponde in ambito CEDU.
7. La lettura di questo libro è una sensata esperienza didattica: gli studenti apprenderanno che i «principi del diritto penale costituzionale» (sent. n. 148/1983) non servono a legittimare l’uso della forza coercitiva, semmai ad arginarla. Scrivendolo, Davide Galliani si conferma giurista inquieto: il suo è l’esatto opposto di un pensiero tranquillo, indisturbato dalle cose che pensa. Di questa sua irrequietezza intellettuale, che ci costringe a riflettere, dobbiamo essergli grati.
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