Milano e la sindrome di Stoccolma del decisore pubblico

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Ovvero: come imparai ad amare il mio sequestratore. Editoriale sulla recente indagine a Milano sul sequestro della funzione pubblica.
C’è un tratto curioso, che ritorna spesso nelle grandi inchieste italiane: la capacità dei protagonisti pubblici di giustificare ciò che non dovrebbe essere giustificabile. L’indagine milanese sul sequestro della funzione pubblica, che avevamo già commentato qualche mese fa, si arricchisce di nuovi dettagli e nuovi protagonisti, ma sembra ruotare sempre attorno allo stesso cortocircuito: il decisore pubblico non è più solo un bersaglio della cattura, ma sembra diventare il suo alleato più devoto. Si direbbe, addirittura, il suo principale sostenitore.
Non c’è traccia, nelle difese ufficiali, di rassegnazione o di costrizione. Non c’è nemmeno la tentazione, antica quanto la politica, di attribuire tutto alla necessità. Al contrario, il tono dominante è quello del riconoscimento reciproco, della comunione di intenti. Il privato “aiuta”, “propone”, “costruisce opportunità”. Il decisore pubblico “accoglie”, “valuta”, “collabora”. E se qualcuno solleva perplessità, viene prontamente rassicurato: nessuno ha violato la legge, nessuno ha tratto vantaggio personale, nessuno ha forzato la mano. C’era solo un progetto. Un obiettivo condiviso. Un’idea alta della città.
Ma questo racconto rassicurante nasconde una dinamica ben più pericolosa: la progressiva identificazione tra decisore e interessato, tra funzione pubblica e interesse particolare. Non si tratta più di una semplice pressione esterna, né di una banale complicità. Quello che sta accadendo – e che l’inchiesta milanese sembra evidenziare con chiarezza – è un fenomeno più profondo, più subdolo, più difficile da intercettare. È la trasformazione emotiva e cognitiva del decisore, che comincia a guardare al proprio sequestratore con gratitudine. Che lo percepisce come un alleato. Che sviluppa una vera e propria forma di attaccamento.
Sì, siamo nel campo della Sindrome di Stoccolma. Una patologia della relazione, in cui la vittima si innamora del carnefice, lo giustifica, lo protegge, lo difende persino contro i propri interessi. Un fenomeno noto in psicologia, ma che, traslato nel contesto istituzionale, produce effetti devastanti. Perché trasforma il patto di lealtà verso la collettività in un patto personale. E legittima, di fatto, la sottrazione della funzione pubblica alla sua missione originaria.
La novità, però, è che questo “sequestro buono” – come lo chiamano con un certo cinismo alcuni osservatori – viene raccontato come un fattore di sviluppo. Milano, si dice, è cambiata. È diventata attrattiva. È una città aperta, moderna, internazionale. E, proprio in virtù di questa nuova centralità, le sue funzioni pubbliche devono sapersi adattare, dialogare, accelerare i tempi. Devono superare i formalismi, le rigidità, le vecchie logiche burocratiche. Devono saper riconoscere il merito, premiare l’iniziativa, costruire “ecosistemi” di governance. E se questo comporta un certo grado di permeabilità ai portatori di interessi, pazienza. È il prezzo da pagare per restare sulla frontiera dell’innovazione.
Ma questa narrazione, apparentemente innocua, produce una frattura culturale profonda. Perché cancella la distinzione tra spazio pubblico e spazio privato, tra decisione imparziale e costruzione di consenso. E soprattutto perché normalizza l’idea che la funzione pubblica possa essere negoziata. Che la legittimazione non venga più solo dal diritto, ma dalla prossimità. Che la capacità di attrarre investimenti, talenti o progetti sia più importante dell’imparzialità. In questo nuovo paradigma, il funzionario non è più il garante di un interesse generale astratto, ma il gestore di relazioni fiduciarie. Un nodo di una rete. Un attore, tra gli altri, di una dinamica complessa.
Il problema è che questa logica, una volta interiorizzata, rende impossibile qualsiasi resistenza. Il decisore pubblico catturato non si percepisce come tale. Non si sente vittima. Non avverte la perdita di autonomia. Al contrario, prova riconoscenza. E si convince di essere parte di un cambiamento necessario. In questo contesto, parlare di integrità, di imparzialità o di doveri d’ufficio rischia di apparire anacronistico. Come un relitto normativo che ostacola l’efficienza. Come un vincolo che rallenta la macchina della città.
Eppure, è proprio in queste situazioni che il principio di imparzialità e di indipendenza dovrebbe riaffermare la sua centralità. Non come ostacolo all’azione, ma come garanzia del pluralismo. Non come difesa corporativa, ma come spazio di tutela per chi non ha voce nei tavoli che contano. Se la funzione pubblica si trasforma in uno strumento al servizio degli interessi più forti – anche quando questi si presentano sotto le spoglie del bene comune – allora la democrazia si svuota. Perde la sua infrastruttura. Rinuncia al suo presidio.
Milano, con la sua straordinaria vitalità, non può permettersi questa deriva. Non può accettare che l’attrattività si trasformi in una forma sofisticata di cattura. Non può confondere la partecipazione con l’influenza, né l’efficienza con la privatizzazione delle scelte. E soprattutto non può legittimare, con il silenzio o con l’ammirazione, il sequestro delle sue decisioni pubbliche.
Forse non c’è stato un reato. Forse tutto è avvenuto nel rispetto formale delle regole. Ma c’è una linea sottile – invisibile ma decisiva – che separa la collaborazione dall’identificazione. Quando il decisore si innamora del suo sequestratore, quella linea viene superata. E il prezzo lo pagano tutti: in termini di trasparenza, di fiducia, di uguaglianza. Per questo, oggi più che mai, serve una riflessione seria, scomoda, radicale. Perché non basta riconoscere gli effetti. Bisogna avere il coraggio di nominare le cause. E di riportare la funzione pubblica dove deve stare: al servizio della collettività, non dei suoi seduttori.
di Massimo Di Rienzo e Andrea Ferrarini di Spazioetico
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