"Moda in Luce 1925–1955", la mostra in corso fino al prossimo 28 settembre a Palazzo Pitti che porta alla scoperta del Made in Italy

Agosto 1, 2025 - 00:00
 0
"Moda in Luce 1925–1955", la mostra in corso fino al prossimo 28 settembre a Palazzo Pitti che porta alla scoperta del Made in Italy

Chi ha deciso che la moda italiana nasce nel 1951? E perché proprio a Firenze, proprio il 12 febbraio, proprio nella casa di Giovanni Battista Giorgini, marchese di nome ma soprattutto P. R di vocazione? Perché, tra i tanti inizi possibili, quello è stato scelto e soprattutto celebrato come il Big Bang del Made in Italy?

La prima Birkin di Jane Birkin venduta all’asta per una cifra storica

La risposta è tanto affascinante quanto curiosamente sospetta. Non perché Giorgini non abbia avuto un ruolo centrale nella messa in scena di quel caso epocale: era un défilé con dodici maison italiane, rigorosamente selezionate, davanti a una platea di buyer americani affamati di novità dopo gli stenti del dopoguerra. Ma quell’evento fu, con ogni probabilità, la prima sfilata italiana a essere raccontata secondo una mitologia fondativa: ma non è stata la prima in assoluto. Ha rappresentato un’operazione narrativa prima ancora che sartoriale, come spesso accade in Italia, dove la realtà va sempre un po’ aggiustata, imbastita, stretta in vita e magari dotata di strascico, perché appaia più elegante della verità.

Venezia, sfilata di modelli di autunno-inverno 1941-1942 confezionati con materiale autartico sotto la guida dell’Ente Nazionale della Moda e della Federazione Nazionale dell’Abbigliamento, alla presenza della duchessa di Genova e del conte Volpi (Foto Attualità / Archivio Luce Cinecittà). 

La data del 1951 è perfetta: sta a metà tra la fine della guerra e l’inizio del boom economico, è avvolta nell’alone cinematografico dei Cinecittà Studios e si presta al racconto rinascimentale: la Sala Bianca, Firenze, i principi del gusto. È una data telegenica. Utile a definire un’identità nazionale quando l’identità nazionale andava reinventata da capo. Con il fascismo appena archiviato e la monarchia caduta, l’Italia repubblicana aveva bisogno di una nuova favola di sé stessa più moderna, produttiva, esportabile. E cosa meglio della moda poteva incarnare tutto questo? E non una moda qualsiasi, bensì quella nata ex abrupto come Atena dalla testa di Zeus (o meglio, di Giorgini), e destinata a conquistare gli Stati Uniti e sconfiggere la grandeur francese. Ciò che accadde in quella casa di via dei Serragli fu sì decisivo, ma solo come epilogo di un processo più lungo, accidentato, contraddittorio e soprattutto collettivo, cominciato molti decenni prima.

Moda in Luce 1925–1955. Alle origini del Made in Italy, la mostra in corso a Palazzo Pitti (fino al 28 settembre, ma alziamo una prece perché sia prorogata) curata da Fabiana Giacomotti, ha il merito di ridare a quel trentennio la dignità che merita e di insinuare una domanda: se la moda italiana fosse nata prima? Forse è il momento di guardare indietro senza mitomania e avanti senza nostalgia. La mostra lo fa proprio lì dove tutto si sarebbe detto che fosse cominciato: a Firenze. Ma questa volta non per celebrare una nascita, bensì per illuminare una gestazione. La luce rivela ciò che già esisteva e solo il buio della storia ha momentaneamente occultato.

Sartoria fiorentina, abito femminile, 1935 circa. Abito garden party in organza di seta avorio stampata a motivi floreali grigi, rossi, gialli e blu. Maniche e retro abito decorate con rouches a “farfalla”. Sottabito in duchesse giallo canarino. Peonia in seta avorio applicata su spalla destra. Collezione Massimo Cantini Parrini, Firenze

Un’operazione identitaria, tra mito e realtà

«Questa mostra», afferma Giacomotti, «racconta la genesi di un’identità che, come tutte le identità culturali italiane, non è mai stata lineare, né centralizzata, né pianificata. È piuttosto una sedimentazione di intuizioni, talenti, artigianato, ambizione, cinema, propaganda, bellezza. E soprattutto: di abiti reali per persone reali, che prima del ’51 camminavano sulle passerelle, ma anche nei giardini, nei teatri, nelle strade, nei film, nei sogni».

Già all’inizio del Novecento c’è chi sognava una moda italiana autonoma, in aperta sfida al monopolio francese: nel 1906 la sarta e attivista Rosa Genoni presentò a Milano una collezione ispirata ai capolavori del Rinascimento, da Pisanello a Botticelli, e nel 1909 promosse addirittura un comitato per “una moda di pura arte italiana”, presieduto dal conte Giuseppe Visconti di Modrone. L’idea di Genoni era chiara: una moda nazionale con radici nell’eccellenza estetica italiana. Sebbene Genoni fosse poi ostracizzata dal regime fascista (non allineata politicamente), il seme era gettato.

Momenti di lezione teorica e pratica all’interno della Scuola di Alta Moda, 1955 (Fondo Vedo / Archivio Luce Cinecittà).

Negli anni Venti e Trenta altri raccolgono il testimone, alimentando una mitopoiesi del Made in Italy che culminerà solo più tardi. A Venezia nel 1926 va in scena una sfilata collettiva italo-francese – la prima del genere, in Italia – quasi in contemporanea con iniziative simili a Milano.

Nel 1935 nasce a Torino l’Ente Nazionale della Moda, organismo volto a promuovere una moda autarchica e “italianissima”, vietando riferimenti ad abiti esteri. Il fascismo inserisce la moda nelle proprie strategie propagandistiche, celebrando le eccellenze manifatturiere nazionali: dai pregiati tessuti dei setaioli comaschi alle invenzioni come il Lanital, lana artificiale ricavata dalla caseina.

Nel 1937 si tiene a Roma la Mostra del Tessile dove sfilano collezioni presentate da trenta sartorie provenienti da Roma e dal Nord Italia, un vero fashion show ante litteram. La moda italiana stava facendo le prove generali della sua identità che nasceva non in un solo luogo né in un solo giorno, ma in una polifonia di centri: Venezia, Milano, Torino, Roma. E, in seguito, Firenze.

Tra il 1941 e il 1943 la rivista Bellezza, fondata da Gio Ponti ed Elsa Robiola, cerca di far digerire allo stile italiano una dose seria di cultura. «Il costume è il vivo specchio della civiltà», scrive Ponti nel primo editoriale Costume e civiltà, ribadendo che la moda deve includere: grazia, bellezza, garbo. Durante la guerra, Ponti critica le riviste che parlano solo di “colori, vezzi, stoffette” mentre il mondo brucia. Vuole un periodico che sia teatro, filosofia, arte, costume, attenzione civile. Si dimette nel 1943, deluso, ma quel progetto seminale germoglia: la moda non è effimera, è atto civile. In Moda in Luce, l’etica pontiana è visiva: l’abito non è solo bellezza, ma uno specchio di civiltà.

Servizio di moda in una boutique, 1955 (Fondo Vedo / Archivio Luce Cinecittà).

Ventura vs Worth: le prime sartorie d’alta moda

A sfatare il mito che tutto sia iniziato a Firenze nei 50 contribuisce la riscoperta di maison storiche italiane, alcune oggi scomparse, che operarono ben prima della nascita ufficiale dell’alta moda italiana. Ventura, per esempio, è un nome che ricorre in mostra e merita attenzione: fondata a Milano nel 1815 da Domenico Ventura, può essere considerata la prima casa di moda al mondo, precedente persino la leggendaria Maison Worth di Parigi, avviata nel 1858. Nata come atelier specializzato nel riprodurre modelli francesi (pratica comune all’epoca), si distinse presto per la qualità eccezionale di fatture e dettagli, aprì filiali a Ginevra e Roma, vestì la nobiltà e divenne fornitrice ufficiale della Casa Reale. Nel 1930 realizzò persino l’abito da sposa della principessa Maria José del Belgio: opera sfarzosa a cui contribuì la giovane Fernanda Gattinoni, allora impiegata da Ventura. Chiuse i battenti nei primi anni 40, ma fu immediatamente rimpiazzata da Germana Marucelli, mentre quelli romani da un’altra pioniera, Gabriella di Robilant.

La mostra accende un firmamento di sartorie leggendarie: Radice, la Maison Tortonese (La Merveilleuse), Gandini, Montorsi, Villa, Fontana, Palmer, Biki, Carosa, per citarne alcune. Molte non sono sopravvissute al passare del tempo ma negli Anni 30 e 40 erano all’apice della creatività e del gusto internazionale. A loro si affiancano nomi celebri, come la pioniera del velluto stampato Maria Monaci Gallenga, il mago del plissé Mariano Fortuny, la sofisticata Simonetta Visconti, e la misteriosa baronessa Clarette Gallotti, nota come La Tessitrice dell’Isola, di cui c’è un mantello esposto.

Scarpe femminili Salvatore Ferragamo, 1935. Etichetta: “Creations Ferragamo’s-Florence-Italy”. Décolleté in merletto ad ago policromo di Tavarnelle, tacco, punta e profili scarpa in capretto dorato. Collezione Massimo Cantini Parrini, Firenze.

Questi atelier italiani, spesso a conduzione familiare o artigianale, gettarono le basi di quell’estetica e di quel “saper fare” che oggi riconosciamo come Made in Italy. È visibile un elegante completo femminile dei primi Anni 20 di Maria Monaci Gallenga, in velluto nero decorato con disegni metallici. Capolavori come questo in mostra grazie alla collezione del costumista, vincitore di un Oscar, Massimo Cantini Parrini, testimoniano la precoce eccellenza artigianale italiana.

Non mancano firme note tutt’oggi ma già attive: Gucci con la “numero uno”, borsa da sera della fine degli anni Venti mai esposta prima, Salvatore Ferragamo col sandalo Invisibile del 1947 ed Emilio Pucci con i primi capi ancora etichettati Emilio. C’è un abito da sera del 1955 firmato Emilio Federico Schuberth, couturier romano celebrato per lo stile sontuoso, amato dalle star dell’epoca.

Antonino, l’Istituto Luce e la moda come cinema

Se è vero che la moda è la forma visibile del desiderio, allora è altrettanto vero che il cinema è la forma visibile di un’ideologia. E in Italia, tra il 1925 e il 1955, la moda e il cinema si sono specchiati l’uno nell’altra. L’Istituto Luce, fondato nel 1924 e diventato strumento visivo del fascismo, ha prodotto per decenni una sterminata quantità di cinegiornali, pellicole educative, documentari, spot pubblicitari e scene di vita quotidiana, in cui la moda era onnipresente come simbolo di ordine, di bellezza, di modernità. Lo è nelle sfilate per signore benestanti riprese tra i padiglioni di Torino, lo è negli atelier delle sartorie romane dove si lavora in silenzio, come in un convento, lo è nei filmati in cui le mannequin sfidano il fango, il vento, l’orgoglio, per calcare improvvisati red carpet d’erba sulle rive dell’Arno.

Il punto più alto di questa fusione fra etica della produzione ed estetica del racconto arriva nel 1948, quando un giovane e inquieto Michelangelo Antonioni firma il documentario Sette canne per un vestito. Il titolo, già di per sé enigmatico, rimanda alla quantità di viscosa necessaria per realizzare un capo d’abbigliamento. È la moda che si fa esperienza sensibile del reale, che prende su di sé il compito che sarà poi del cinema italiano: raccontare il Paese, le sue fratture, le sue speranze, il suo desiderio inespresso di bellezza.

Abito femminile Biki Milano, 1936. Abito da gran sera in velluto di seta blu notte, scollatura incrociata sul davanti ed a cratere sul dietro. Drappeggio sul centro della gonna, piccolo strascico a punta sul dietro, “ali” stesso velluto lasciate libere dalle spalle. L’abito fa parte della prima collezione della maison Biki del 1936 (Collezione Massimo Cantini Parrini, Firenze).

Nel film di Antonioni, e in molti cinegiornali Luce dell’epoca, si vede chiaramente come la moda non sia ancora quella delle copertine e del jet-set, ma sia invece un laboratorio comune. Gli abiti che si vedono sfilare in passerelle improvvisate (scuole, teatri, persino caserme) sono parte di un rito civile, non solo estetico. Si sta costruendo, centimetro dopo centimetro, cucitura dopo cucitura, un’idea di italianità che non passa dalla parola ma in primis dal tessuto, come scrive nel catalogo la sapiente studiosa Margherita Rosina. La modernità della moda italiana non è nel glamour, ma nella capacità di enunciare chi siamo stati e chi avremmo voluto essere. Ed è per questo che il cinema, molto prima dei giornali, ha saputo raccontarla meglio.

In un finale a sorpresa degno di un cinegiornale Luce, possiamo dire che la mostra fiorentina non è una semplice retrospettiva, ma una piccola ribellione storiografica vestita bene. «Moda in Luce arricchisce la narrazione sul Made in Italy e lascia un segno duraturo nella comprensione del patrimonio creativo italiano», scrive Simone Verde, direttore delle Gallerie degli Uffizi. Chiamarla “operazione di riscoperta critica” è quasi understatement. Fabiana Giacomotti e l’Archivio Luce hanno compiuto un gesto più netto: una restituzione alla storia, senza abbellimenti e senza indulgenze. Non un prequel, ma un racconto autonomo, finora lasciato ai margini. E ora finalmente rimesso a fuoco.

 

The post La mostra a Firenze “Moda in luce 1925-1955”. Un’identità cucita a mano appeared first on Amica.

Qual è la tua reazione?

Mi piace Mi piace 0
Antipatico Antipatico 0
Lo amo Lo amo 0
Comico Comico 0
Furioso Furioso 0
Triste Triste 0
Wow Wow 0
Redazione Redazione Eventi e News