La signora Woolf, la camicetta in picchè e la necessità di comprendersi alla fine

Dicembre 9, 2025 - 07:30
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La signora Woolf, la camicetta in picchè e la necessità di comprendersi alla fine

Curiosa cosa (dammi una mano, chiedimi: «quale cosa?») quella cosa della comprensione. lo ci cado o fingo di caderci dentro
(fingere lo sai com’è: fingere è un’enfasi). Dico la verità ossia dico come per un attimo sono andate le cose (poi, si sa, l’attimo fugge, e con esso le cose e la verità. Ma siamo prestidigitatori, noi umani?). Sono andate così: m’è passato sotto gli occhi un suo passo, un passetto, poi lei si è seduta. Se per passo intendo una cosa scritta?

Sì, anche. In certi momenti mi piace, di soprassalto questa donna mi piace, fisicamente mi piace, questa signora Woolf. Quella camicetta in cotone picchè, leggerissima, fresca. Mi è sempre piaciuto che di una tessuto, di una cosa da indossare si possa dire che è «fresca». «Levati quel cataplasmo di dosso, mettiti una cosa fresca»: che arioso accordo maggiore, anche solleticante. L’estate iniziava così, aprendo un cassetto, quel giorno preciso, e nel cassetto c’erano le maniche corte. Le robe leggere, anche coi disegni sopra. Cosa ricordo? Bandierine navali, e poi, non so, mi parevano cioccolatini stampati ma erano fiori, come il sopra dei cioccolatini anch’essi usciti dagli stampi (ero poco orientato all’apprezzamento dei fiori, più verso le stagnole con dentro la dolcezza). Che altro ricordo? Corde, cime, ancore che prendevano tutte le direzioni addosso a me, a salire, a scendere, in obliquo e di traverso, e anche visioni di città (è mai possibile?) come piccole cartoline che si ripetevano, anche capovolte, stampate come timbri sulle mie camicie leggere.

C’è una cosa che è più fresca dell’essere fresca, è la cosa fresca fresca, è il tessuto chiaro, beige, panna, bianco: questa camicetta in picchè che Adeline indossa, traspirante, semitrasparente (c’è qualcosa che va oltre il nudo: è il nudo che va oltre quel che lo
copre).

Certe immagini profumano (come quelle che ti dava il barbiere quando t’eri fatto i capelli ma soprattutto t’eri fatto grande e allora avevi diritto al primo calendario, al tempo che da quel momento cominciava a passare, un calendarietto con la nappa pendente da un cordino che rilegava tutta la faccenda, una cosa da tasca, da palmo di mano (la vita è simbolica perché la realtà è simbolica, così che tu passi dal simbolo al segno che lasci, più o meno inciso, più o meno sfregato, strisciato, graffiato più o meno perché hai sulle dita le tracce dei tuoi misfatti in materia di terra, di cioccolato, di pizza rossa, di inchiostro). Quello che indossavo io (non sto parlando di me), quello che indossavamo noi faccette da schiaffi, non era mai chiaro perché subito era sbaffato così che indossavamo quei capi dal, così si diceva, disegno fantasia, praticamente già macchiati, tipo Sironi ma di tendenza più astratta, come un Picasso che nel periodo blu avesse anticipato il periodo dopo.

Cos’è l’astrattismo? È questo: dipingere tele che si dispongono all’incidente, alle strusciate con la vita, agli strofinamenti, ai cerchi dei bicchieri, alle pestate di robe organiche sui marciapiedi, agli sgocciolamenti di un mondo aggrondato, alle orme dei corpi, alle cancellature, alle toppe più del buco, al buco come toppa di serrature estetiche, addirittura allo sguazzare di allegre pennellesse, a cazzi di cane con la pisciarella, a tutto, insomma, a tutto, agli impatti col mondo viso a viso. Un quadro astratto è un pezzo di qualcosa che esiste, tipo un pezzo di muro, di zolla con erba e cocci, di panni scompigliati al vento, ma anche stracciati e fradici, di frittata, di minestrone, di lisca, di scavi fognari, di strati di terre e di cieli di tutti i colori delle terre e dei cieli, a pezzi e a bocconi, a tramezzini, a finestre aperte e chiuse, Mondrian, per esempio, ottimo disegnatore di facciate e vetrate, quadrato e posato, che dipingeva cose davvero ricavate dalla vita, non le figure e i paesaggi che sono idee fisse, davvero più astratte dei quadri astratti, che, mi ripeto, sono pezzi dell’esistenza fatta a pezzi, pezzi di cuore.

Mi sono perso. Cosa volevo dire che ancora non ho detto? Ah, un momento, prima gli occhioni, quegli occhi spalancati meravigliati e allarmati tutt’assieme, quegli occhi della signora Woolf. Quel viso da levriere, e io sarei il leprotto dei suoi giochi. Chiude quegli occhi (e per lei è un ristoro), apre la bocca e dice annaspando (gorgogliante?) «chiamami Adeline» (è la terza volta nella vita che pronuncia questa richiesta, poi mi confiderà). Due grosse palpebre chiuse, due uova d’oca fritte con il coperchio, così impallidiscono, bianche, il colore della sua pelle con ai margini l’ombra arricciata delle orecchie. Adeline Godelinda, il suo nome segreto, «non dirlo in giro, rischierei di entrare nell’orgiastica veglia di un volgare Finnegan
ubriaco». La posa cubista del levriere a riposo sul divano, dopo aver fatto quel paio di passi (ovviamente scritti), questi: «… la nostra anima non la conosciamo, figuriamoci quella degli altri… in noi c’è una foresta vergine, un campo di neve che non conosce l’impronta di un uccello… andiamo avanti così, da soli… Essere compatiti sempre, essere sempre accompagnati, essere sempre compresi, quanto è insopportabile». E poi (ma questo non lo ha scritto) dice: «Finché puoi goditi e lasciati godere da lontano, quanto può essere lontana la cosa scritta dalla cosa letta. Per la comprensione c’e tempo. C1 comprendiamo solo perché non ci resta altro che questo atto disperatamente finale: comprendere. Comprenderci: senti, solo a dirlo, come è già finito tutto?». «Sì, stiamo dando spettacolo, che è quello che fa chi scrive. Forse dovrebbe essere così per ogni attività: dare spettacolo, limitarsi a questo. Insomma, fare il minimo danno». E questa chi l’ha detta?

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Redazione Redazione Eventi e News