Le serie televisive raccontano la Sicilia come una cartolina rassicurante

Non è cattiva, “Sicilia Express”, l’ultima fatica di Salvatore Ficarra e Valentino Picone su Netflix. È semplicemente buona. Troppo buona. Di quella bontà che, sullo schermo, sa di frutta martorana e di anestesia. Una Sicilia addobbata a festa, illuminata dal Natale e da una retorica del «siamo tutti bravi e buoni», dove persino il lavoro che manca o il caro voli si tramuta in occasione di poesia. Ma sotto la superficie scintillante c’è un vuoto narrativo, un’isola senza mordente, pacificata.
È il sintomo di una tendenza culturale più ampia: negli ultimi anni, un velo di «buonismo» sembra aver coperto ogni racconto isolano. La regola non scritta è chiara: non disturbare il manovratore. E così, mentre la cronaca continua a restituire un’isola complessa e contraddittoria – fatta di inchieste sulla corruzione negli appalti sanitari, di violenza urbana crescente, di giovani che partono e di disservizi strutturali come la crisi idrica – la fiction preferisce la cartolina.
In “Sicilia Express”, Ficarra e Picone, due infermieri siciliani che lavorano a Milano, scoprono un cassonetto della spazzatura che collega magicamente, in pochi secondi, il Nord e il Sud. Da lì parte una commedia degli equivoci costruita su toni leggeri, sul contrasto bonario Nord-Sud e sulla magia del Natale che, in fondo, rimette a posto le cose senza mettere mai davvero in discussione nulla.
L’isola è uno sfondo perfetto: le città del barocco, i paesaggi, le tratte ferroviarie diventano un mosaico visivo caloroso e instagrammabile. La satira sociale c’è, ma è addomesticata: si ride dei voli cari e dell’acqua che manca, non delle responsabilità, dei poteri, dei meccanismi che producono quei ritardi.
Il successo più grande degli ultimi decenni resta “Il commissario Montalbano”, che, nella versione televisiva, diventa soprattutto rassicurazione, con casi che si chiudono e una Sicilia che, pur attraversata dal crimine, resta fondamentalmente accogliente. Andrea Camilleri aveva costruito i suoi romanzi sulla grande metafora sciasciana del «giallo senza soluzione», in cui la Sicilia è un labirinto irrisolvibile. Sul piccolo schermo, quel labirinto si smorza in un set turistico globale. La Sicilia diventa sfondo per un giallo rassicurante, dove i delitti si risolvono e il paesaggio è sempre splendido. La serie attrae turisti e fa scoprire le bellezze dell’isola, ma riduce la complessità sociale e politica a un contorno estetico.
La stessa sorte è toccata a “Màkari” su Rai 1. Nata dalla penna di Gaetano Savatteri, la serie è diventata una commedia anestetizzata, dove le trame si concentrano sempre più su relazioni, crisi personali e triangoli, con il mistero che spesso diventa un pretesto. Anche qui la Sicilia, questa volta quella occidentale, della costa di San Vito Lo Capo e del Trapanese, è splendida e addomesticata, più comfort zone che campo di battaglia civile.
Il contrasto con la memoria storica è stridente. Negli anni Ottanta, la televisione generalista portava in prima serata “La Piovra”, un racconto seriale sulla mafia che non risparmiava il pubblico: omicidi, stragi, collusioni tra Cosa Nostra, finanza e politica. Era una fiction «disturbante», con finali tragici ed eroi che muoiono, un prodotto che contribuì a far conoscere la mafia a un Paese che spesso la rimuoveva. Oggi, difficilmente, una serie così troverebbe spazio.
E persino il giornalismo di denuncia popolare è venuto meno. Per anni, Sabrina Petyx, con il suo bassotto, portava in prima serata su “Striscia la notizia” inchieste limpide su abusi, mala gestione e malaffare in Sicilia. Era giornalismo pop, capace di dare nomi, volti e luoghi. Oggi quello spazio si è ristretto: al suo posto trionfano formati di puro intrattenimento e volti amati e «di famiglia», come Gerry Scotti, simbolo perfetto di una televisione che vuole essere compagnia, e “La Ruota della Fortuna”, che Mediaset presenta come «prodotto culturale». (Non pensavo un giorno di doverlo scrivere, ma è così: ci manca “Striscia la notizia”. È stata sacrificata all’altare della pax televisiva tra i Berlusconi e Giorgia Meloni. E non ce ne siamo accorti).
Anche le piattaforme streaming sembrano abbracciare, con sempre maggiore convinzione, una rappresentazione della Sicilia che privilegia il comfort visivo e la leggerezza narrativa, spesso a discapito della complessità storica e sociale del territorio.
L’adattamento di “Il Gattopardo” per Netflix è, ad esempio, una prova di straordinaria superficialità rispetto al romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa e al capolavoro di Luchino Visconti. La serie, pur ricca di costumi e location spettacolari, sembra trasformare il romanzo in una sorta di “Emily in Paris” risorgimentale, dove la bellezza estetica e il lusso nobiliare prevalgono sulle tensioni politiche e sociali del periodo.
La profondità del «gattopardismo» – il trasformismo, il compromesso, la perdita di valori – viene ridotta a un gioco di convenienze e opportunismi, senza mai affrontare il peso delle scelte storiche o la drammaticità del mutamento. Il risultato è un prodotto spettacolare, ma scolastico, che trasforma la Sicilia in uno sfondo per una narrazione che potrebbe essere ambientata ovunque. La serie sembra più uno spot turistico che un’opera di critica sociale, dove la storia diventa pretesto per la bellezza e il glamour.
La sublimazione di tutto è “The White Lotus”. La seconda stagione della serie cult è ambientata proprio in Sicilia. E la Sicilia scompare: diventa sfondo esotico per raccontare i conflitti psicologici e sociali di un gruppo di turisti ricchi. Fondo di cartapesta che scompare tra stereotipi e storpiature.
Queste scelte riflettono una tendenza delle piattaforme a privilegiare formati internazionali, facilmente esportabili e poco disturbanti. La Sicilia diventa un brand da consumare, una cartolina da cui attingere bellezza e folklore, ma non da cui partire per raccontare storie di conflitto, di identità, di contraddizione.
Emerge la sensazione di una regia culturale che depotenzia sistematicamente il conflitto. L’isola è la Sicilia-icona, non la Sicilia-problema: quella che si fotografa, saccheggiata da Dolce & Gabbana, non quella che interroga.
Il paradosso è che, a forza di non disturbare il manovratore, il racconto dell’isola ha smesso di essere racconto e si è ridotto a cornice. La sfida, per chi fa informazione e cultura, è tornare a raccontare una Sicilia che non stia solo bene in cartolina, ma che torni, se necessario, a fare paura e a sollevare domande.
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