Lo sport alla prova dei cambiamenti climatici

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Il 2025 dello sport è iniziato con una preoccupante sfilza di segnali d’allarme. A gennaio, gli incendi dell’area di Los Angeles hanno costretto l’Nba a rinviare diverse partite dei Lakers e dei Clippers. Nello stesso mese, è saltata anche la trasferta degli Houston Rockets ad Atlanta, a poco più di tremila chilometri di distanza dalla California, solo che la causa, in quel caso, era una tormenta di neve – stesso Paese, altra emergenza. E la Scottish Premiership, il massimo campionato di calcio scozzese, ha rinviato la partita tra Celtic e Dundee a causa dei danni che la tempesta Éowyn ha provocato al Celtic Park, lo stadio di Glasgow.
Il primo febbraio è invece saltato l’appuntamento con la discesa libera maschile di Coppa del Mondo di sci a Garmisch-Partenkirchen, ancora per condizioni meteo avverse. L’elenco è lunghissimo e tocca praticamente tutti gli sport, indoor e all’aperto. È sembrata un’accelerazione improvvisa: un’emergenza che avevamo inconsciamente relegato in un futuro irraggiungibile ha fatto irruzione nel presente, impossibile da ignorare. Eppure era sotto i nostri occhi da un po’. Anche il 2024, infatti, non si era chiuso in modo più clemente, per lo sport. A ottobre, la Serie A aveva dovuto posticipare Bologna-Milan a causa dell’alluvione che aveva colpito l’Emilia-Romagna. Una settimana più tardi, in Spagna, Valencia-Real Madrid non si era giocata per l’inondazione causata dalla Dana, che aveva sommerso la città della Comunità valenciana.
Lo sport è sempre più influenzato dalla crisi climatica, a tutti i livelli, in ogni angolo del mondo. Le partite si fermano, il caldo estremo rende la fatica insopportabile, il freddo congela i campi, arene e stadi diventano irraggiungibili. L’industria sportiva è sia parte in causa sia vittima nel processo di degradazione dell’ambiente in cui si svolgono le competizioni: da un lato, le emissioni derivanti dalla logistica e dall’organizzazione delle gare contribuiscono al cambiamento climatico e, dall’altro, le ondate di calore, le tormente di neve e altri fenomeni meteorologici estremi incidono sulle competizioni, sulla salute e sulle prestazioni degli atleti.
Prendiamo come esempio il calcio, che è l’industria sportiva più grande e ricca del mondo. Il rapporto Dirty Tackle, pubblicato a febbraio da Scientists for Global Responsibility e dal New Weather Institute, stima che l’industria calcistica mondiale sia responsabile ogni anno di una quantità di emissioni di CO₂ che va dai 64 ai 66 milioni di tonnellate. Più o meno quante ne produce l’Austria. Dirty Tackle mostra anche una preoccupante tendenza verso l’alto delle emissioni generate dall’industria calcistica. Le tre cause principali sono i trasporti, la costruzione degli stadi e – ma questo è più difficile da misurare – il quantitativo di emissioni derivanti dagli accordi di sponsorizzazione.
«Se pensiamo al calcio come industria, dobbiamo considerarla ancora molto arretrata rispetto ad altri settori dell’economia, per il modo in cui pensa alla sostenibilità e per come ne parla pubblicamente. È un mondo che solo da poco ha iniziato a grattare la superficie», dice a Linkiesta Freddie Daley, docente dell’Università del Sussex e membro di Cool Down, network del New Weather Institute che studia soluzioni ambientali per il mondo dello sport.
Daley è inglese, ama il calcio ed è preoccupato per il futuro del gioco sia come ricercatore sia come tifoso. L’anno scorso da una sua analisi è emerso che il 25 per cento dei campi da calcio del Regno Unito potrebbe essere parzialmente o totalmente allagato entro il 2050 se non ci sarà un rallentamento nel riscaldamento globale. «Sono dati allarmanti, eppure sono convinto che solo un grande disastro potrebbe svegliare il mondo del calcio dal suo torpore. E con questo intendo una tragedia in un grande evento, come ad esempio i Mondiali dell’anno prossimo che si disputeranno negli Stati Uniti, in Canada e in Messico. Se ci fosse un’interruzione, se non si potesse giocare a causa del caldo estremo, a causa dell’aria inquinata dagli incendi, o qualcosa del genere, penso che questo accelererebbe di molto il dibattito», dice Daley.
Un esempio non casuale: secondo una nuova ricerca pubblicata dalla Queen’s University di Belfast, quasi il 90 per cento degli stadi nordamericani che ospiteranno i Mondiali 2026 potrebbero essere soggetti a livelli di calore potenzialmente pericolosi. «Se dovesse accadere», aggiunge Daley, «le persone penserebbero che la Fifa, i club e i calciatori dovrebbero fermarsi e pensare a uno nuovo schema di adattamento al nuovo clima, ormai indispensabile perché il mondo sta diventando un posto sempre più pericoloso».
I problemi e i dilemmi del calcio si ripetono in forme più o meno simili in tutti gli altri sport. Ma nessuno sembra avere la soluzione definitiva. Il processo di adattamento è lento, faticoso e difficile da calibrare in un clima che cambia di continuo. Di proiettili d’argento non ce ne sono. Federazioni, leghe e organizzazioni sportive propongono contromisure che però si sono rivelate finora solo degli analgesici utili a prendere tempo, o poco più.
Durante una partita del 2023, Daniil Medvedev guardò dritto nella telecamera durante una pausa e disse: «Un giocatore morirà, e poi vedranno». Erano gli US Open, uno dei quattro tornei più importanti del tennis, gestito dall’associazione tennistica americana che già nel 2018 aveva introdotto una “politica sul caldo estremo” per consentire ai giocatori delle pause periodiche in caso di temperature molto alte. Il tennis è uno degli sport più colpiti dall’emergenza climatica e nei prossimi anni dovrà forse modificare ancora i suoi paradigmi. Un esempio su tutti: il calendario è costruito con l’idea di giocare nelle stagioni in cui piove meno e le giornate sono lunghe e calde, ma in futuro servirà forse l’approccio opposto per cercare di evitare che i giocatori (e gli spettatori) collassino durante una partita.
È un discorso che si ripete e si ritrova altrove. Il Tour de France è probabilmente la competizione ciclistica più famosa al mondo e fin dal 1903 si svolge tra fine giugno e luglio. Ora, però, l’aumento continuo delle temperature potrebbe costringere l’organizzazione a cambiare date per cercare un mese più fresco. Già adesso c’è una maggior irrorazione di acqua sulle superfici stradali rispetto al passato e sono state introdotte zone di rifornimento aggiuntive. Ma potrebbe non bastare in futuro.
In uno sport di resistenza delle condizioni meteorologiche estreme esercitano un’enorme pressione sul corpo umano e il calore può debilitare i ciclisti in gara. Altre discipline hanno un rapporto ancora più stretto con l’ambiente, come gli sport invernali o quelli acquatici. Ed è per questo che spesso sono gli ultramaratoneti, gli sciatori o i velisti ad alzare la mano più degli altri atleti per denunciare l’insostenibilità dell’emergenza climatica, i rischi che essa comporta e la necessità di trovare delle contromisure adeguate che finora nessuno sembra aver trovato, almeno non in maniera definitiva.
Lo sguardo al futuro non offre prospettive entusiasmanti. L’anno prossimo Milano e Cortina ospiteranno le Olimpiadi invernali, una manifestazione che rischia di non trovare nuovi host in futuro: secondo uno studio di Taylor&Francis, nel 2080 solo undici delle ventuno località olimpiche del passato potrebbero avere il clima giusto per organizzare di nuovo i Giochi invernali. Non va meglio ai Giochi estivi. Secondo uno studio Nikkei, nel 2050 pochissime città avranno condizioni ambientali sostenibili – circa il 40 per cento delle centonovantatré prese in esame.
Già le prossime Olimpiadi rischiano di diventare un problema. Nel 2028 sarà Los Angeles a organizzarle, la stessa città che a inizio anno ha visto posticipare delle partite di pallacanestro – uno sport per certi versi privilegiato perché si gioca indoor. Secondo l’amministrazione cittadina, quando si terranno i Giochi estivi nel luglio 2028, Los Angeles sarà ancora impegnata nella ricostruzione di ciò che è stato distrutto: case, aziende, uffici, edifici amministrativi e parchi.
Non il massimo per preparare uno show da sette miliardi di dollari della durata di diciassette giorni, che dovrebbe attrarre fino a quindici milioni di visitatori in una regione che già ne ospita diciotto milioni. È troppo presto per parlare di annullamento, rinvio o cose simili. Ma gli incendi dello scorso inverno hanno creato nuove preoccupazioni a un’organizzazione già di per sé complicata. La speranza è che almeno non ci siano altri disastri da qui al 2028.
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