L’omicidio di John Lennon è stato l’inizio della fine dei boomer intellettuali (e mammoni)

È l’8 dicembre 1980. New York è già tutta addobbata per Natale. Luminarie e festoni, stelle comete e alberi argento e oro nelle vetrine della Fifth Avenue, elfi e renne di cartongesso all’ingresso delle botteghe di Times Square, ovunque insegne al neon con Babbi Natale scintillanti alla guida di slitte cariche di doni elettrici impacchettati, carole natalizie a tutto volume. Fao Schwarz, il negozio di giocattoli più grande al mondo, è preso d’assalto da turbe di genitori e nonni invasati che si strappano di mano l’un l’altro giochi da tavolo, spade laser, Barbie ballerine. Sta finendo l’anno, e non soltanto quello: la morte brutale di John Lennon è la fine di un’epoca – l’età beata e bambina delle culture radicali, che per quasi trent’anni, dal dopoguerra a questo brusco tramonto dei Seventies, sono stati il negozio di giocattoli intellettuali e metafisici della società opulenta (che Herbert Marcuse, filosofo oggi dimenticato ma in quegli anni un cult, definisce «permissiva», criticandola per le ragioni sbagliate).
È lì – nel grande Fao Schwarz delle iperboli, delle superstizioni filosofiche, delle idee e dei costumi dell’età opulenta – che questi figli del dopoguerra miracolati dai boom hanno fatto incetta di chitarre elettriche e hula hoop, di 45 giri e Lp, di Libretti Rossi del presidente Mao e di radioline a transistor, di camicie e gonne a fiori, di pipe per fumarci hashish e marijuana, di sacchi a pelo, di film di Godard e d’Elvis Presley, di reading di poesia, di cappelli da Davy Crockett con la coda di castoro, di poster di Marilyn Monroe che cerca d’abbassarsi la gonna sollevata da uno sbuffo di vapore della sotterranea, di costumi da Superman, di copie dell’Uomo a una dimensione, della Société du spectacle, dei Vagabondi del Dharma, di candele profumate e di ciondoli new age col pentacolo inciso nel bronzo, di tessere del teatro stabile e del cineclub, di preservativi e pillole anticoncezionali, di motorini e automobili, di buoni e spesso ottimi titoli di studio, dell’affetto incondizionato dei genitori. È tutto pagato, alla cassa del Fao Schwarz globale, con la carta di credito di mamma e papà. […]
Lennon si materializza, come diceva William Burroughs dei suoi detective e «malamente» Nova, in ogni possibile cappotto tra quelli à la mode. È da solo una specie di Fao Schwarz in stile fusion, dove si servono specialità intellettuali di tutte le scuole, fazioni, sette e tendenze che prosperano nella società opulenta. Niente gli è estraneo di ciò che s’apprende in fretta, per formule catechistiche da canzonetta, senza bisogno di riflettere né di studiare: il terzomondismo, la lotta di classe, il potere al popolo e soprattutto il no alla guerra, ah, la guerra mai. È un professionista della musica, ma in tutto il resto è un dilettante. Eppure, se le culture radical dei boom globali hanno un piazzista, come ne aveva uno, nella Commedia umana di Balzac, «il giornale Il Globo, gran bel nome che ne esprime chiaramente la missione», quello è John Lennon: un «illustre Gaudissart» delle controculture. Anche ogni sua canzone, «ogni benedetta mattina», è lì – come Il Globo – per spiegarci con un meme musicale, che poi rimane fisso tra le orecchie, «le nuove condizioni entro cui si realizzerà, in poco tempo, la trasformazione politica e morale del mondo».
Lennon è uno dei boomer più o meno esagitati che si ripromettono di rifilmare la pellicola del mondo. Sono non violenti – specie nel senso che non hanno «niente contro la violenza», che ha le sue ragioni, come si fantastica in quei decenni (e dopo, e prima). Cambiare il mondo è naturalmente uno di quei propositi infallibilmente destinati al fallimento. Ma è bello parlarne come se fosse possibile o anche soltanto augurabile. Eternamente in posa, vaste masse di boomer pieni di sé fissano la fotocamera e in coro, da un capo all’altro dell’Occidente, dicono «cheese». Immaginate, canta Lennon, un mondo senza frontiere, un mondo senza religione, né Dio né padroni, dove siamo tutti fratelli, nessuna brama, niente cupidigia. Immaginate che tutti condividano tutto. Immaginate un mondo senza proprietà, senza denaro.
È qui che Chapman drizza le orecchie. Senza proprietà, senza denaro? Ma Lennon non è un nababbo con yacht, ville in Florida e a Beverly Hills, l’attico al Dakota, royalties miliardarie? Uno così – comincia a pensare Chapman, passando lentamente da discepolo a odiatore – predica contro il denaro? Cos’è? Uno scherzo? Lennon, conclude Chapman dopo lunga (o breve, è lo stesso) riflessione, è «un fasullo». Peggio: è «un adulto», come direbbe Holden Caulfield, di cui la guardia giurata di Honolulu custodisce in tasca il memoir firmato J.D. Salinger insieme a una pistola. Ed eccolo appostarsi all’ingresso del Dakota. Nell’aria fiocchi di neve e carole natalizie. Mai prima dei boomer – nati dopo la peggior guerra mai vista, concepiti tra le rovine da genitori entusiasti e forse ancora increduli d’essere sopravvissuti ad Auschwitz, a Los Alamos, a Hiroshima e Nagasaki, alle SS, ai bolscevichi – mai una generazione ha trovato così difficile uscire dall’infanzia e raggiungere l’età adulta.
Forever Young, così s’intitola una canzone di Bob Dylan, è la didascalia che riassume in due parole l’album delle foto Polaroid di quegli anni frenetici. Giovani per sempre, i boomer vivono in questo eterno giardinetto, coccolati dalle famiglie, assistiti dalle istituzioni, cibandosi di merendine al cioccolato e d’opinioni barocche. Hanno per scivoli le idee (vuoi brillanti vuoi balorde) divulgate dai cantautori e dai filosofoni pop e per altalene un ininterrotto «avantindrè» tra psicanalisi e astrologia, tra droghe salvifiche e marxismo, tra relativismo culturale (lo zen, il reverendo Jones, il Kamasutra e la medicina vedica, L. Ron Hubbard, Gurdjieff, il Dalai Lama, il mistero delle piramidi) e le superstizioni sociologiche correnti.
Senza più uscire da questo nido d’infanzia, i boomer mettono su famiglie precarie, trovano lavori anche ben pagati, chiedono e ottengono mutui dalle banche, vanno in pensione ancora giovani e persino giovanissimi, girano il mondo, abbracciano a colpo sicuro le cause più estremiste, occupano le file dell’informazione e, pur avendo tutto da imparare, diventano insegnanti e continuano a diffondere, nostalgici, imperterriti, suonatori a cui non puoi insegnare un’altra musica, le culture della società opulenta quando di questa, da decenni, ormai non c’è più traccia, nemmeno vaga, e le sue culture non spiegano né contano più nulla, se mai hanno spiegato o contato qualcosa. In un’altra era geologica – quando sembrava che ancora ci fossero campi di fragole per sempre, quando Desmond comprava un anello d’oro da venti carati e (ob-la-di ob-la-da) lo portava a Molly, quando i Beatles si battevano contro i Biechi Blu in Yellow Submarine e Iosif Brodskij traduceva in russo i testi delle loro canzoni – Mark David Chapman aveva messo fine a tutto questo con quattro colpi di pistola.
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