Perplexity non può comprare Chrome, ma dimostra che può essere separato da Alphabet

In queste ultime ore si è parlato molto dell’offerta di Perplexity, la startup di intelligenza artificiale che, come un’aringa decisa a inghiottire un capodoglio, ha messo sul tavolo 34,5 miliardi di dollari per comprare Chrome. Ma la vera notizia non è se riuscirà davvero nell’impresa: è che per la prima volta Alphabet, la società madre di Google, potrebbe essere costretta a vendere il suo browser.
Da Chrome passa più del sessanta per cento delle ricerche mondiali, insieme a pubblicità e dati che alimentano l’intero ecosistema della multinazionale. E ora un giudice federale statunitense, Amit Mehta, in carica dal 2015 presso il tribunale distrettuale di Washington D.C. e con una lunga esperienza in casi economici e di concorrenza, sta per decidere se ordinarne la cessione forzata per limitare il monopolio di Google nella ricerca online.
Tutto nasce da un’azione del Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti avviata nel 2020 insieme a un gruppo di Stati americani, tra cui California, Colorado, New Jersey e New York. L’accusa: Google ha mantenuto un monopolio nella ricerca pagando miliardi all’anno a produttori di dispositivi, sviluppatori di browser e operatori mobili per essere il motore predefinito. Solo nel 2021, queste intese hanno avuto un valore di 26,3 miliardi di dollari.
Nel 2024, il giudice Mehta ha stabilito che Google ha violato la legge antitrust e ha aperto la fase dei rimedi, costosissimi, da pagare per sanare questo abuso. Il governo federale e gli Stati hanno chiesto interventi radicali, fino alla vendita di Chrome o addirittura del sistema operativo Android, sostenendo che senza misure strutturali Google replicherà nello spazio dell’intelligenza artificiale la stessa strategia che le ha garantito il dominio nella ricerca tradizionale.
Perrdere il controllo di Chrome non è una scelta semplice: significherebbe cedere la distribuzione diretta di miliardi di ricerche e quindi una quota sostanziale dei ricavi pubblicitari. Non stupisce che il ceo di Alphabet, Sundar Pichai, in aula, abbia definito la cessione una misura sproporzionata, avvertendo che separare Chrome dalla sua infrastruttura basata su Chromium potrebbe compromettere la protezione dei dati e ridurne la qualità complessiva.
Proprio su questo punto, Perplexity ha cercato di rassicurare Alphabet, non riuscendoci. Nella lettera inviata a Pichai per motivare la proposta di acquisto, la startup ha promesso di mantenere Chromium come base open source: la versione “libera” e pubblica del browser, che contiene il motore di navigazione e la struttura tecnica su cui Chrome è costruito, ma senza il marchio, le funzioni proprietarie e l’integrazione diretta con i servizi Google. Perplexity si è impegnata impegna inoltre a lasciare Google come motore di ricerca predefinito, con la possibilità per l’utente di cambiarlo, e soprattutto a investire tre miliardi nei primi due anni per sviluppo e sicurezza
La strategia della startup ha anche un evidente valore politico. Le probabilità di una cessione restano basse, ma l’esistenza di un acquirente serve a dimostrare al tribunale che lo scorporo è tecnicamente possibile. Perplexity, che ha lanciato il proprio browser Comet, trarrebbe un vantaggio competitivo enorme dal possesso di Chrome: accesso diretto a miliardi di utenti, visibilità globale e un canale privilegiato per distribuire le proprie tecnologie di ricerca basate su IA.
Resta però il nodo delle valutazioni. Secondo diversi analisti americani, Chrome potrebbe valere tra cinquanta e cento miliardi, una cifra ben superiore a quella proposta da Perplexity. Per Alphabet, il suo valore reale non è misurabile come un asset isolato, perché rappresenta il punto di partenza dell’intero ecosistema Google, dal motore di ricerca alla suite di produttività, fino ai futuri servizi di intelligenza artificiale.
Se il giudice Mehta ordinasse la cessione, Alphabet potrebbe chiedere una sospensiva e avviare un lungo processo d’appello. Nel frattempo sarebbe obbligata a garantire aggiornamenti e sicurezza durante la transizione a un nuovo proprietario. Se invece optasse per rimedi meno invasivi, Google dovrebbe comunque rinunciare agli accordi esclusivi, introdurre schermate di scelta più chiare e forse condividere parte del proprio indice di ricerca con i concorrenti.
La decisione attesa nelle prossime settimane dirà se, per la prima volta in vent’anni, Alphabet sarà costretta a consegnare le chiavi di questo portone a qualcun altro. E non per forza a Perplexity.
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