“40 secondi”, l’ultimo giorno di Willy Monteiro Duarte

Novembre 28, 2025 - 13:28
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“40 secondi”, l’ultimo giorno di Willy Monteiro Duarte

Quaranta secondi sono tanti o sono pochi? Sono quelli bastati a prendere la vita a Willy Monteiro Duarte, ragazzo italiano di origini capoverdiane che nella notte del 6 settembre 2020 è stato brutalmente ucciso a Colleferro, in provincia di Roma, per mano dei fratelli Gabriele e Marco Bianchi, già coinvolti in risse e pestaggi precedenti alla morte di Willy. Mercoledì 26 novembre una sentenza della Cassazione ha riconfermato l’ergastolo per Marco Bianchi, mentre il fratello dovrà scontare vent’otto anni.

“Quaranta secondi” è il titolo del film uscito nelle sale il 19 novembre che racconta le ventiquattro ore che hanno preceduto la morte violenta del ragazzo. La pellicola è ispirata liberamente all’omonimo libro della giornalista e saggista Federica Angeli, che ha seguito il caso di Duarte, ricostruendo le dinamiche dell’accaduto nel libro 40 secondi. Willy Monteiro Duarte. La luce del coraggio e il buio della violenza.

Il girato ha un approccio quasi documentaristico, con riprese molto serrate e chiuse per non indugiare sulla pornografia violenza, ma per ripercorrere l’anatomia della caduta, i retroscena dell’assassinio di Willy Monteiro Duarte. Il film è strutturato in capitoli, e in ognuno viene raccontata la giornata dei personaggi che si sono ritrovati coinvolti – volenti o nolenti – nell’omicidio del ragazzo. Il giovane aiuto cuoco di Paliano era intervenuto per sedare una lite in cui non era direttamente coinvolto. Quella di Willy è una morte casuale, quasi banale, il frutto marcio di un litigio inutile, figlio della provincia violenta e asfissiante, che tarpa le ali a chi coltiva un sogno, e che nel percorso verso l’emancipazione si ritrova senza fiato. Lontano dalle città, sembra che le cose non possano cambiare mai. 

Tutti i personaggi, seppur in diverse misure, nella propria vita fanno esperienza di una violenza che è ordinaria: si parla di padri aggressivi e abusanti– come quello dei fratelli Bianchi –, di genitori feroci e umilianti – come quelli di Maurizio, interpretato da Francesco Ghenghi –, un Neet e un inetto che ritrovatosi senza una prospettiva inizia a frequentare i fratelli Bianchi; ma anche di colleghi gelosi e prepotenti – come quelli di Willy, interpretato da Justin De Vivo –, di partner possessivi, misogini e criminali. C’è chi questa violenza ordinaria l’ha interiorizzata, fino a che è diventata un sintomo, un tratto caratteriale, come nel caso dei fratelli Bianchi.

«Nelle prime pagine il libro si chiedeva come avrà iniziato la giornata Willy, il giorno della sua morte, e come l’avranno iniziata i suoi assassini – ha raccontato il regista Vincenzo Alfieri, durante la proiezione del 20 novembre al cinema Anteo –.  Io e Giuseppe Stasi, il mio co-sceneggiatore, abbiamo trovato questo spunto molto interessante». Per raccontare i giovani coinvolti nella vicenda, il regista si è affidato anche ad attori e attrici non professioniste, come per esempio il protagonista, Willy, interpretato da Justin De Vivo. «L’attore che interpreta Willy è stato trovato in discoteca, i  fratelli Bianchi in palestra; e anche per altri ragazzi era la prima volta in camera, affiancati da attori professionisti – ha spiegato il produttore Roberto Proia, di Eagle Pictures – Il merito della regia è stato quello di riuscire a dirigere un cast eterogeneo e farlo sembrare un unicum». 

Alfieri spiega che quando al liceo gli venivano proposti film per ragazzi, li percepiva sempre come costruiti: fatti da persone adulte che giudicavano i più giovani con la loro lente d’ingrandimento. «E odiavo questa cosa. Per poter scrivere la storia ho avuto bisogno di andare in quei luoghi, parlare le persone, perché io ho trentanove anni e quando un ragazzo di diciotto o vent’anni mi parla, non ci capisco niente. Ci sono delle terminologie mai sentite che ho dovuto inserire nel film». Così, per i casting hanno girato il Lazio, provando a inserirsi nelle comunità capoverdiane per trovare l’interprete perfetto per Willy. Il regista e la produzione hanno passato molto tempo a intervistare ragazze e ragazzi del posto, ascoltando la loro musica, fotografando i vestiti che indossavano, e osservando con quali attività si intrattenevano nel tempo scandito dai ritmi lenti della provincia. «Eravamo a Paliano, un piccolo paese vicino a Colleferro, per  intervistare dei ragazzi. Sono stato lì diverse ore, e in queste ore non succedeva nulla – racconta Alfieri –. E c’era questo bar, dove alcuni anziani giocavano a carte, mentre c’erano altri ragazzi vestiti in modo strano, che stavano lì fermi con la birra a non fare niente. Totalmente annoiati, annichiliti». 

«Fare il genitore è un casino: sono da poco diventato papà e mi ha cambiato la prospettiva delle cose, soprattutto a livello artistico», dice il regista. La pellicola parla infatti anche di genitorialità – intesa in senso lato –, un rapporto di cura che fuoriesce dalle famiglie, talvolta assenti, disinteressate o distratte, spesso cariche di troppi problemi per occuparsi dei figli. La loro educazione passa quindi soprattutto attraverso le parole di altri: degli amici, dei compaesani, delle forze dell’ordine, come quelle del carabiniere, interpretato da Francesco Di Leva, che in caserma intima ai fratelli Bianchi di tacere. 

La pellicola si chiude con un finale sospeso, un prologo autoriale che svela che Willy aveva finalmente ottenuto la promozione che da tempo desiderava, una buona notizia arrivata cinicamente troppo tardi, che non era riuscito a raccontare nemmeno ai suoi amici, una promessa di una nuova vita che non si sarebbe più realizzata. «Intervistando gli amici di Willy ci siamo resi conto che lui non era diverso dagli altri, era uguale: parlava allo stesso modo, vestiva allo stesso modo, era come loro; ma a differenza degli altri aveva un obiettivo, un sogno, che nella provincia molto spesso viene visto male, sembra quasi una cosa di cui vergognarsi», dice Alfieri. 

40 secondi non è un film che parla apertamente di razzismo: rimane quasi una sottotraccia, come fosse una violenza sopita, a bassa intensità, che monta con il progressivo incastrarsi delle storie di ogni personaggio. L’ultimo capitolo, dedicato a Willy è l’ultimo pezzo di un puzzle. Il racconto parte dal cuore e dall’emozione fino ad arrivare al cervello, fino alla scena finale, quella in cui la vittima è l’unica persona nera presente, Willy Manteiro Duarte. «Il prologo è la prima cosa che ci è venuta in mente, perché il film parla di un gregge, delle persone: apparteniamo tutti a un gregge, anche quelli più liberi di noi – chiude il regista –. È la mia visione cinica di questa storia, ma anche un po’ della vita: quando provi a uscire dal gregge, muori. Fisicamente e metaforicamente. Willy non è un santo: ha fatto un gesto di grande umanità, non un gesto eroico». Nella provincia succede così, e i Verdena, nella colonna sonora, ricordano quanto sia faticoso trovare un modo semplice per uscirne.

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Redazione Redazione Eventi e News